“Non siamo l’Inghilterra e non siamo la Bbc. Noi abbiamo una cultura politica più articolata e, quindi, in Rai bisogna mantenere la distinzione in più testate giornalistiche per garantire il pluralismo”.

Questa, parola più parola meno, la principale motivazione portata da alcuni consiglieri d’amministrazione della Rai, da molti giornalisti della stessa azienda e dai tanti politici – che si ritengono in dovere di commentare ogni stormir di fronda di viale Mazzini – per motivare la loro contrarietà al progetto dell’ad Salini di accorpare in un’unica newsroom l’informazione Rai. Come accade in tante altre emittenti analoghe – ad esempio la Bbc – e, soprattutto, per meglio riorganizzare un’offerta che deve fare i conti con le tante piattaforme distributive ormai esistenti. Progetto analogo a quello previsto qualche anno fa dal neo-direttore de “la Repubblica” Verdelli, quando era responsabile dell’informazione dell’emittente pubblica televisiva, e avallato dall’allora amministratore delegato Campo Dall’Orto.

In queste dichiarazioni è evidente la convinzione di come il pluralismo possa realizzarsi soltanto attraverso la somma di diverse parzialità. Dunque, il giornalista deve essere contiguo alla fonte politica per meglio rappresentarla e il pubblico, a seconda della rete scelta, avrà il “punto di vista” privilegiato dalla parte politica che – per riprendere la notissima definizione di Bruno Vespa – rappresenta l’editore di riferimento.

 

Per carità, non stiamo dicendo niente di nuovo, soltanto ribadendo la fortissima politicizzazione del giornalismo italiano. Eppure la nonchalance con cui si continuano a fare le osservazioni da cui siamo partiti evidenzia come non venga assolutamente considerata un’altra possibile interpretazione del concetto di pluralismo, incentrato – piuttosto – su una visione del giornalismo quale istituzione terza fra fonte e pubblico, in grado di fare sintesi di tutte le sensibilità presenti nel campo politico-culturale del contesto da raccontare.

Insomma, la differenza rispetto al mondo anglosassone e alla Bbc non è una maggiore articolazione delle culture politiche, bensì una differente cultura giornalistica.  

Sia chiaro, chi scrive non vuole idealizzare il giornalismo inglese. Ogni giornalismo è figlio del contesto che lo produce. Tuttavia, bisogna riflettere sulle conseguenze di ciò che potremmo definire pluralismo partigiano, sia per ragionare sulla sua efficacia in un quadro politico e istituzionale differente rispetto a quello che nei decenni scorsi ha caratterizzato la politica italiana, sia – soprattutto – per riflettere su come incida nella rappresentazione della realtà italiana.  

La contiguità fra giornalismo e politica ha storicamente prodotto in Italia un’identità professionale costruita a ridosso della seconda. Più che una professionalità fondata sull’esigenza d’informare, se ne è definita una contraddistinta dall’esigenza di formare alle ragioni della parte politica con cui ci si sente in sintonia. Una caratteristica – al di là di come la si giudichi – maggiormente adeguata per un quadro politico e culturale statico, come è stato a lungo quello dell’Italia della cosiddetta Prima Repubblica. Proprio questa caratteristica ha prodotto la storica sottovalutazione dell’orientamento all’obiettività e la conseguente convinzione che il giornalista non possa che essere di parte e che l’atteggiamento più onesto sia dichiararlo. Una posizione più semplice da sostenere per testate edite da imprenditori privati, assolutamente liberi di scegliere il proprio posizionamento; più difficile, invece, per l’emittente pubblica, che deve assecondare il principio del pluralismo politico-culturale ben esplicitato nella legge di riforma del 1976. Un’attenzione da subito declinata in chiave partitica, con l’attribuzione del canale principale alla forza politica maggiore – la Dc, del secondo canale al principale alleato di governo – il Psi – e la terza rete al Pci, rilevantissimo partito d’opposizione. 

Se questo sistema ha retto a lungo, con l’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica e poi, soprattutto negli ultimi tempi, con i continui mutamenti dell’offerta politica italiana e la presenza di forze politiche più fluide e leaderistiche abbiamo assistito e assistiamo a continui riposizionamenti delle testate Rai. In questo modo, però, appare evidente come i giornalisti non raccontino il Paese da una prospettiva aderente alle loro “sensibilità”, ma debbano conformarsi alla “sensibilità” di volta in volta prevalente. Una chiara etero-direzione che progressivamente si palesa anche agli occhi dei fruitori meno attenti, con una conseguente perdita di autorevolezza dell’emittente. Siamo molto lontani dall’autonomia del direttore generale della Bbc – il laburista Greg Dyke – che trasmise un’inchiesta sull’infondatezza delle motivazioni addotte da Blair, che pure aveva avallato la sua nomina, nella guerra all’Iraq di Saddam Hussein!

La più importante azienda culturale italiana è costretta a un racconto della società italiana fortemente condizionato dalla lente distorcente del posizionamento politico. Ne emerge alla lunga un quadro schizofrenico, in cui diventa più difficile ricomporre in modo organico le crescenti articolazioni politiche, economiche e culturali caratterizzanti il Paese. Non si produce un racconto italiano, non si riesce a comprendere quale sia la giusta cornice in cui collocare le tante vicende e i tanti fenomeni che qualificano la società italiana. Non a caso la Rai non è mai riuscita a realizzare un canale internazionale rilevante, finalizzato a presentare l’Italia e le sue ragioni e peculiarità al mondo intero, come hanno fatto altri servizi pubblici. Eppure, in questo modo si rappresenterebbe meglio quell’interesse nazionale a cui continuamente dichiarano di rifarsi le attuali forze di governo.

Evidentemente, anche in questo caso l’interesse maggiore è far prevalere la propria visione, piuttosto che aiutare a far emergere i valori condivisi e profondi della cultura italiana, piuttosto che analizzare e descrivere il modo in cui tali valori si traducono in pratiche ed evolvono nel tempo. Così si definiscono sguardi differenti, ma tutti dal respiro corto; mentre mai come in questo confuso momento internazionale servirebbe avere un’idea forte del Paese, ovviamente declinabile politicamente in tanti modi diversi, come qualsiasi democrazia – fondata anche e soprattutto su una stampa autonoma e autorevole – è chiamata a fare. La Rai dovrebbe essere il luogo giusto dove costruire questo racconto. Sarà assai difficile, però, che possa riuscire a farlo nelle condizioni attuali.