Nel suo celebre volume La globalizzazione intelligente (Laterza, 2015) Dani Rodrik ci spiega come tutte le democrazie occidentali si siano dimostrate incapaci di coniugare contemporaneamente e in maniera credibile tre aspetti: la partecipazione alla globalizzazione economica, l’esercizio di una sovranità nazionale ben attenta alle istanze che provengono dall’interno, l’implementazione di un sistema autenticamente democratico. Rodrik sostiene che, stando alle attuali regole del gioco, è impossibile soddisfare contemporaneamente tutte e tre le condizioni e che, in sostanza, i governi hanno la sola possibilità di sceglierne due su tre, sacrificandone una.

Negli ultimi tre decenni molti Paesi hanno aderito con entusiasmo alla globalizzazione economica e lo hanno fatto in qualità di democrazie forti, attente ai processi democratici nazionali e sovranazionali. In questo stesso periodo sono state invece parzialmente inevase le istanze che abbiamo definito “interne” e che hanno un diretto impatto sulla vita delle persone. Si pensi ai posti di lavoro persi a seguito delle decisioni di outsourcing delle imprese, allo spiazzamento di interi mercati a seguito della concorrenza di altri Paesi, all’abbassamento dei livelli di vivibilità di città, periferie e piccoli centri a seguito dell’insediamento di interi gruppi di immigrati in cerca di fortuna provenienti dai Paesi poveri. Crediamo dunque che buona parte di questi problemi sia attribuibile a ciò che Dani Rodrik ha chiamato “hyper-globalizzazione”, ovvero l’accelerazione dell’integrazione economica globale negli ultimi decenni che, rimanendo nello schema del trilemma, non ha saputo dare adeguate risposte alle esigenze interne dei Paesi.

La seconda grande fonte di mutamenti economici ha origine nelle dinamiche legate al cambiamento tecnologico. Che cosa possiamo dire della forma specifica di progresso tecnologico che abbiamo sperimentato negli ultimi decenni? A chi è costata di più la crescita di produttività da questo generata? Il dibattito scientifico non è ancora giunto a una conclusione unanime ma è opinione diffusa che i processi di automazione che stanno cambiando il modo di concepire il lavoro producono effetti diversi per lavoratori skilled o unskilled. Ciò dipenderebbe sostanzialmente dalla distinzione fra “complementarità” e “sostituzione”. Detto altrimenti, un qualsiasi lavoratore, se la nuova tecnologia si sviluppa come forma di alternativa (sostituzione) al suo lavoro, perderà in termini di occupazione e salario; se invece la nuova tecnologia si sviluppa come capacità di aumentare l’efficienza del suo lavoro (complementarità), allora ne guadagnerà in termini di occupazione e salario.

Secondo Branko Milanovic, nel periodo 1988-2008, se confrontiamo gli incrementi di reddito reale con i diversi strati della popolazione, ci troviamo di fronte a una situazione con solo due tipi di persone che hanno davvero vinto. La classe media emergente dei Paesi in via di sviluppo e le élite economiche dei Paesi avanzati. La prima con un incremento del reddito reale di circa l’80%, la seconda di circa il 60%. Viceversa, a livello globale ci sono due soggetti che hanno visto i loro redditi stagnare o diminuire in termini reali, e questi sono la classe della piccola borghesia e dei blue collars nei Paesi avanzati, e coloro che potremmo definire come i super-poveri, ovvero, ad esempio, le popolazioni dell’Africa sub-sahariana. Già solo prendendo in considerazione questo dato, ovvero le variazioni di reddito reale sulla base della propria posizione nella scala del reddito globale, si può capire che la sera, sugli schermi dei nostri televisori, appaiono due tipi molto differenti di globalizzazione. La prima costituita dalle grandi aziende multi/trans-nazionali che operano e investono su scala globale, e l’altra molto ben rappresentata dalle drammatiche immagini dei barconi che sbarcano masse di disperati sulle nostre coste. Quest’ultima è la globalizzazione dei migranti, i super-poveri dell’economia globale, i perdenti, coloro ai quali il nuovo assetto post-Washington consensus non ha saputo offrire un cambiamento positivo e reale nel tenore di vita. 

Che cosa ci dicono le ricerche sulla distribuzione degli effetti di complementarità e sostituzione del cambiamento tecnologico? Le dinamiche di sostituzione e complementarità possono essere assai complesse. Ad esempio, per un dato lavoratore l’effetto di sostituzione può essere generato tanto dalla vera e propria scomparsa di un determinato tipo di impiego, quanto a seguito della possibilità di delocalizzare una parte del processo produttivo verso luoghi dove il costo del lavoro è minore. Allo stesso modo, il processo di complementarità dovuto al cambiamento tecnologico può essere più o meno ovvio. Un ingegnere del software può guadagnare in termini di efficienza perché il suo computer ha un processore migliore, ma anche perché la nuova tecnologia che ha a disposizione gli consente di accedere a un numero sempre crescente di potenziali compratori dei suoi servizi. Anche se il dibattito empirico è ancora in corso, il contorno generale delle dinamiche sembra segnalare che gli effetti di complementarità siano concentrati sui lavoratori comparativamente più skilled, mentre gli effetti di sostituzione tendono a concentrarsi su lavoratori unskilled e semi-skilled.

Come hanno cercato di rispondere a queste nuove sfide i governi durante l’esplosione della globalizzazione e del cambiamento tecnologico? Dal punto di vista della politica economica, nell’era pre-crisi 2007-2009 la risposta degli Stati Uniti è stata quella di proporre un modello di sviluppo fondato sull’economia del debito: bassi tassi di interesse al fine di incentivare l’indebitamento di famiglie e imprese. Le prime per consumare, le seconde per investire. Questo modello ha funzionato abbastanza bene fino a quando, a seguito della crisi finanziaria, si è accartocciato su se stesso dimostrando, ancora una volta, che i mercati senza regolamentazione non riescono a funzionare come dovrebbero, sono come biciclette senza telai. Intanto la bolla immobiliare era scoppiata, Greenspan detronizzato, la Goldman Sachs e le altre grandi “investment banks” ricevevano ampie iniezioni di capitali pubblici e le famiglie americane persero, per poi recuperarla quasi del tutto, circa il 40% della loro ricchezza.

E in Europa? In Europa i temi erano diversi, mentre si litigava intorno all’atavico dilemma da banchieri centrali (crescita o inflazione?) si realizzava il sogno della moneta unica, si compiva l’allargamento ad est, si sperimentava una democrazia decentrata e depotenziata, si sanciva definitivamente un’antica e sempre attuale verità: l’economia non basta a fare l’Europa, ci vuole la politica. Intanto la Germania, dopo un periodo di attente ed efficaci riforme, imponeva la linea ordoliberale del rigore e del fiscal compact e, sulle carni stanche di Paesi incapaci di delineare in maniera credibile il proprio destino (Grecia su tutti), sperimentava anni di inutile e controproducente “austerity espansiva”. È importante notare che tanto l’economia del debito quanto l’“austerity espansiva” sono tentativi di risposta che non hanno un profilo neutrale dal punto di vista distributivo e ciò a prescindere dalla loro efficacia. L’economia del debito, ovvero la crescente accumulazione di debito da parte di famiglie e imprese, rende le balance sheets di questi soggetti più fragili. Consente, di certo, il proseguimento degli investimenti e di forme di consumption smoothing, ma si paga in termini di una maggiore esposizione alle conseguenze di shock endogeni ed esogeni. Allo stesso modo, e al netto del suo scarso successo, l’austerity espansiva distribuisce i sacrifici che richiede alle persone in maniera diseguale. Partendo dal presupposto che sono le fasce meno abbienti a trarre maggior beneficio da politiche di spesa pubblica, l’austerity espansiva ha necessariamente effetti regressivi dal punto di vista della distribuzione, anche considerando che i presunti effetti trickle down non sembrano generare i benefici attesi.

A tutto ciò andavano poi sommati gli effetti derivanti dalla libera circolazione dei capitali finanziari che, come ben spiegato da tre ricercatori dell’Fmi e da Dani Rodrik, hanno di fatto aumentato le diseguaglianze generando una lenta ma progressiva polarizzazione non solo tra i vincenti (élite) e i perdenti (classe media) della globalizzazione, ma anche tra questi ultimi e i perdenti dei Paesi poveri, costretti, nel migliore dei casi, a migrare lontano dal proprio Paese alla ricerca di migliore fortuna. Una volta scoppiata la crisi, questi tentativi si sono rivelati definitivamente inadatti nel delineare credibili risposte, aggravando di fatto la situazione piuttosto che sanarla.

In questo quadro assai desolante va sottolineato un ultimo aspetto di carattere più prettamente culturale: il ruolo delle élite, specialmente quelle social-democratiche. Nella migliore delle ipotesi il loro apporto è stato condizionato da un’inadeguata capacità di comprendere e “simpatizzare” (nel senso smithiano del termine) con i “perdenti” della globalizzazione. Così, mentre nelle università del pianeta le élite apprendevano delle “magnifiche sorti e progressive” delle teorie neoliberali e degli effetti (quasi) esclusivamente benefici della globalizzazione, si allargavano le disparità e, ancor di più dopo la crisi finanziaria 2007-2009, la ricchezza pro capite e l’occupazione diminuivano, generando un inasprimento dei rapporti sociali e decretando la nascita dei movimenti a forte caratterizzazione populista. Detto altrimenti, la povertà intellettuale ed emotiva e la mancanza di coraggio politico che le élite social-democratiche hanno dimostrato negli ultimi decenni saranno ricordate, a nostro modo di vedere, come le pietre miliari di quel fallimento collettivo che ha generato il ritorno di movimenti politici anti-sistema.

I populisti, e questo va detto senza ambiguità alcuna, non hanno, sinora, offerto alcun tipo di ricetta che possa realmente affrontare i problemi che qui si è cercato di esporre per sommi capi. Essi, invece, si sono concentrati, come dallo spartito che a loro più si confà, sulla critica dell’esistente e sulla vendita di audaci promesse che vanno non solo oltre ciò che oggi è, ma ben oltre ciò che saremo mai in grado di ragionevolmente ottenere. Il rischio più evidente è che il loro elettorato, disilluso, si affidi a un populismo 2.0 che non si limiti a criticare o danneggiare le istituzioni liberaldemocratiche, ma miri apertamente alla loro distruzione sistematica. E invece proprio le istituzioni liberaldemocratiche, e in esse includiamo quelle dedicate alla gestione del rapporto fra società e mercato, ci potrebbero offrire una via d’uscita.

La vera alternativa al populismo, la vera fonte di un cambiamento che possa esso sì, davvero, giovare a tutti, è racchiusa in un incremento della qualità delle istituzioni. Tuttavia, come ci ha insegnato Douglass North, le istituzioni cambiano, sì, ma solo nel lungo periodo, pertanto nell’“oggi” che connota e domina l’attuale discorso politico è molto più facile lasciare che il mercato detti da solo le regole del gioco, o, in alternativa, guadagnare un microfono e sparare a zero contro il sistema, contro le élite finanziarie e politiche, contro tutto ciò che è diverso dal nostro quotidiano.

 

[Gli autori desiderano ringraziare Vittorio Amato, Ugo Marani, Marcello Messori, Fortunato Musella, Carmelo Petraglia, Domenico Scalera e Armando Vittoria per gli utili commenti al testo]