L'espressione “cittadinanza attiva”, pressoché sconosciuta fin verso gli anni Duemila, ha avuto da allora una crescente fortuna nell’arena pubblica, essendo stata fatta propria da istituzioni, organizzazioni della società civile, comunità scientifica, sistema dei media. Essa si può ormai considerare una delle espressioni-chiave del discorso sulla partecipazione dei cittadini alla vita civile. Proprio per questo una sua attenta considerazione può essere utile per comprendere di che cosa parliamo, precisamente, quando ci riferiamo alla partecipazione civica. Questo è, infatti, un tema su cui c’è tutto meno che chiarezza.

Basti pensare che, mentre un motore di ricerca come quello di Google restituisce circa 11 milioni di risultati per l'espressione “cittadinanza attiva”, le definizioni che con fatica si possono reperire di questo concetto sono confuse: ad esempio si legge che cittadinanza attiva è un generico darsi da fare o preoccuparsi, come è nel caso dei programmi sull'educazione civica nelle scuole; oppure che significa esercitare diritti e doveri e fare la propria parte nella società, confondendo la “cittadinanza attiva” con la cittadinanza comune, perché è ovvio che agire per la minimizzazione dei rifiuti o per il risparmio energetico, ma anche denunciare un caso di corruzione è “cittadinanza”, non “cittadinanza attiva”; o ancora che vuol dire partecipare alle attività promosse dal comune, facendo così, paradossalmente, diventare le amministrazioni e non i cittadini i protagonisti della partecipazione. 

A cosa sono dovute questa confusione e questa incertezza? Direi che ci sono almeno tre fattori che andrebbero presi in considerazione al riguardo. Il primo è la invasiva presenza di “parole magiche” nella vita del Paese (e oltre): si tratta di parole pubbliche concettualmente deboli ma che vengono continuamente evocate e ripetute per legittimare o delegittimare soggetti, programmi, azioni. L’universo semantico dell’impegno civico non sfugge a questa sindrome della vita pubblica; anzi, è uno dei luoghi in cui essa si manifesta in modo acuto.

Il secondo fattore è la generale crisi del modello tradizionale della cittadinanza democratica, manifestatosi a partire dagli anni Novanta a seguito di fenomeni come l'immigrazione, la moltiplicazione delle identità collettive, la crisi dei sistemi di Welfare, la crescente sfiducia nelle classi dirigenti politiche, che hanno nello stesso tempo minato i pilastri su cui esso si reggeva e innescato fenomeni evolutivi inediti e non previsti. Da questo punto di vista, il ricorso a espressioni come “cittadinanza attiva” funge da surrogato per connotare una cittadinanza che è sempre più difficile definire. Non sapendo più precisamente che cos’è la cittadinanza, si propone una specie di “cittadinanza aumentata”; ma il problema resta.

Il terzo fattore è costituito, a mio avviso, da un insieme di vecchie e nuove categorie delle scienze sociali, e in particolare di quelle che hanno a che fare con la politica, che rendono invisibile o risibile l’attivismo dei cittadini nella scena pubblica. Se la politica ha luogo solo all’interno del sistema politico formale, che esercita l’unico potere che conta, la decisione, e al quale i cittadini possono al massimo rivolgere domande, eventualmente nella forma della protesta; e se il modo in cui possono rendersi utili è quello di creare relazioni tra loro, senza distinzione tra un coro polifonico e un centro anti-violenza dedicato alle donne, oppure quello di esercitarsi in “palestre della democrazia”, perché la partecipazione dovrebbe essere rilevante?

Se invece guardiamo all’attivismo civico come una “pratica di cittadinanza” che consiste in una pluralità di autonome forme di azione collettiva che si attuano nelle politiche pubbliche e che danno concretezza al principio costituzionale dell’impegno per rimuovere gli ostacoli all'eguaglianza dei cittadini attraverso attività di interesse generale (articoli 3 e 118); e consideriamo in questo caso le attività di interesse generale come quelle che mirano a rendere effettivi i diritti esistenti o promuovere il riconoscimento di nuovi diritti; a prendersi cura di beni comuni materiali o immateriali; a promuovere l’autonomia di soggetti in condizioni di debolezza o di emarginazione (empowerment), possiamo cogliere la portata di forme di impegno civico, o di cittadinanza attiva, che costituiscono una risorsa non fungibile non solo per la reinvenzione della cittadinanza democratica, ma anche per riconsiderare il significato della politica. Il punto, infatti, come scriveva Ulrich Beck, è che “noi cerchiamo la politica nel luogo sbagliato, nei concetti sbagliati, ai piani sbagliati, nelle pagine sbagliate dei quotidiani”, mentre la potremmo trovare, tra l’altro, nel fatto che “i cittadini esercitano concretamente i loro diritti, riempiendoli della vita per la quale ritengono che valga la pena di lottare”.