In un Paese come l’Italia, in cui, ogni anno, vengono letteralmente buttati via 12,3 miliardi di euro di cibo (di cui la metà direttamente dai consumatori), fa abbastanza specie leggere il diffuso stupore per le estreme azioni di protesta che, in questi giorni, i pastori sardi hanno inscenato in quasi tutte le comunità dell’isola: versare per strada il loro latte chiedendo un giusto prezzo per la fatica del loro lavoro.

Eppure c’è chi capisce il loro malcontento, la loro rabbia ed è manifestamente solidale con una categoria produttiva che costituisce tuttora, nell’immaginario collettivo, parte fondante dell’identità complessiva della Sardegna. Ci sono anche solide ragioni perché ciò accada, e queste hanno presupposti su alcuni numeri. La Sardegna è nel Mediterraneo la terra in cui è più alta la concentrazione di pecore: due ogni abitante, oltre 3 milioni di capi ovini per 1,6 milioni di persone. In Italia, come in Grecia, se ne contano poco più di 6 milioni, in Francia 5 milioni e mezzo. Per la stagione 2016-2017 è stata dichiarata dai pastori sardi una produzione di 284 milioni e 108 mila litri di latte da pecora, più della Francia che ne ha dichiarato 263 milioni. Il 70% della superficie isolana è destinata al pascolo. L'intera filiera dell'ovicaprino, tra aziende di produzione, trasformazione e indotto, ha circa 40 mila addetti, con un valore che sfiora i 400 milioni di euro all'anno.

Ma nonostante questi numeri, il prezzo del latte che gli industriali della trasformazione lattiero-casearia pagano ai pastori è di 60 centesimi al litro, molto al di sotto dell'euro e 10 centesimi stimato come prezzo necessario per coprire i costi e avere un minimo di ritorno economico. Questo significa, molto banalmente, che gran parte delle aziende del settore sono destinate a incontrare seri problemi di sostenibilità economico-finanziaria nei prossimi tempi, che si preannunciano più che mai angusti. Non è una questione recente, ma di lungo periodo, che affonda nelle asimmetrie di posizione di filiera tra produttori di latte e trasformatori in formaggio, laddove la gran parte del latte isolano è – almeno dagli inizi del secolo scorso – trasformato da imprenditori e commercianti ciociari, ponzesi, lucchesi, lucani (e infine sardi) in “pecorino romano”, un tipo di formaggio “rustico”, molto saporito e dal gusto piccante, “da grattugia”, adatto appunto al condimento dei piatti di “pasta asciutta” serviti nelle tavole di una sempre più folta comunità italiana emigrata nelle Americhe (Stati Uniti e Argentina in particolare). Nonostante siano passati molti anni, tuttora, su oltre 12 mila aziende pastorali sarde, più di 10 mila producono latte per la trasformazione in pecorino romano, un formaggio che rappresenta 81,54% dei pecorini dop prodotti in Italia e il 52% di quelli Ue. Insomma, la monocoltura produttiva alimentata dalla forte domanda estera è rimasta intatta nella sua vergine definizione iniziale: il 91% del formaggio prodotto in Sardegna è quello romano, mentre le altre tipologie di formaggi rimangono assolutamente residuali (5% di pecorino sardo maturo, 2% di pecorino sardo dolce e stessa quota di “fiore sardo”).

Eppure. Eppure il mondo cambia. Cambia quello della produzione così come quello del consumo. E forse sta qui uno dei nodi più importanti e meno affrontati in questi ultimi decenni da tutti gli attori in gioco, pastori, caseifici e classe politica regionale: l’incapacità di leggere dei mutamenti in corso e cercare di affrontarli con un orizzonte di lungo periodo.

Per un verso è cambiata il mondo della produzione: chi ha ancora in testa il mondo pastorale di Padre padrone raccontato da Gavino Ledda non riuscirebbe a riconoscerne profili e contenuti attuali. In questi ultimi anni i pastori si sono stanziati in pianura, abbandonando la montagna e la transumanza. Sono diminuiti di numero anche perché si sono professionalizzati e hanno investito in tecnologia (ad esempio, si sono installate oltre 6 mila mungitrici) migliorando la qualità dei prodotti e il benessere animale. Negli ultimi 10 anni sono stati investiti 600 milioni di euro di risorse comunitarie che hanno migliorato lo stato di salute degli animali, diminuendo sensibilmente la carica di cellule somatiche media degli ovini. Infine, nei 28 anni che vanno dal 1982 al 2010 la media di pecore per azienda è cresciuta del 97%, passando da una media di 121,3 pecore a 239.

Per un altro verso sono cambiati i protagonisti del mercato, laddove, dai primi anni dell’attuale secolo, sono apparsi sulle piazze americane importanti e agguerriti competitors, come i bulgari, i rumeni e gli argentini. Ecco che, da dominatori quasi esclusivi, i prodotti sardi hanno visto scendere la loro quota di mercato perdendo ogni anno percentuali significative.

Infine, è cambiato anche il mondo del consumo, laddove ai prodotti piccanti e “duri” si preferiscono – anche per ragioni di una nuova cultura dietetica – formaggi leggeri e molli, meno ricchi di grassi anche se meno saporiti. L’introduzione di nuovi modelli alimentari sembra, infine, aver spostato le preferenze dei consumatori verso le “confezioni” garantite da un marchio o addirittura già pronti per l’uso domestico.

A fronte di queste trasformazioni, gli attori fondamentali del comparto sono andati avanti in modo inerziale, incapace di cogliere rischi e pericoli della propria azione: durante la campagna 2017/2018, la produzione di latte di pecora ha avuto un incremento del 10-15%; lo stesso ha fatto quella di pecorino romano, aumentata del 24%. Insomma, mentre i consumi interni diminuiscono e le esportazioni, fondamentale motore del settore, sono andate a picco (-33%;  soprattutto quelle verso il mercato del Nord America, dove il calo dell’export ha raggiunto il 44%) l’unica strategia rimasta a chi nella filiera è il più debole è quella di una “voice” dai tratti anarchici, che ha tracimato le possibilità di governance del Movimento Pastori Sardi, della Coldiretti e, infine, di una classe politica isolana che ha governato male o per niente il difficile grumo di problemi  del settore.

Una giusta remunerazione del prodotto fondamentale, il latte, è cosa sacrosanta per salvare l’impresa pastorale e la dignità del lavoro del pastore. Ma è anche necessario che ci si dedichi a modificare quel settore da inerziale a dinamico, attento alle contingenti trasformazioni in atto; insomma, maggiormente “market oriented”.