Per Alina oggi è un giorno importante: la sua scuola, un liceo scientifico di Milano, ha organizzato la cerimonia di premiazione di 11 studenti eccellenti e lei è una di loro. Ha la media del 9, è simpatica e popolare. Ma a primavera non andrà in gita a Parigi con i suoi compagni, perché Alina non è cittadina italiana e il visto di espatrio per una minorenne ucraina non è facile da ottenere. È nata in Italia, ha frequentato solo scuole italiane. Non è mai stata in Ucraina e sua madre, dopo la nascita di Alina, non ci ha più rimesso piede, per paura di non poter fare ritorno.

Di Alina sono piene le classi di ogni ordine e grado: secondo i dati più recenti forniti dal Miur, nell'anno scolastico 2016/2017, gli studenti e le studentesse con cittadinanza non italiana erano circa 826.000, con un aumento di oltre 11.000 unità rispetto all'anno precedente. Il 9,4% sul totale degli studenti, una percentuale in crescita fin dagli anni Novanta e con numeri che diventano «notevoli», scrive il Miur, nel primo decennio degli anni Duemila: una «presenza strutturale», l'unica «componente dinamica del sistema scolastico italiano», che «contribuisce con la sua crescita a contenere la flessione della popolazione scolastica complessiva».

Ma chi sono Alina e gli altri? Quasi il 61% appartiene alle cosiddette «seconde generazioni»: stranieri per la legge, la maggioranza di questi ragazzi è nata in Italia. A loro non sono precluse solo le gite scolastiche: se, per qualunque ragione, i loro genitori non potessero rinnovare il permesso di soggiorno, sarebbero rimpatriati verso Paesi di cui spesso non conoscono più nemmeno la lingua.

Alina e gli altri sono il prodotto della legge n. 91 del 1992: «Nuove norme sulla cittadinanza». Una legge «nata morta», come la definisce Claudia Barbieri, funzionaria dello sportello unico immigrazione della Prefettura di Milano. Il 5 febbraio del 1992, il Senato approva la nuova legge sulla cittadinanza. La ministra dell'Immigrazione, Margherita Boniver, parla di «una vittoria di civiltà, ispirata da principi straordinariamente democratici».

La precedente normativa risaliva al 1912, quando c'erano i Savoia e Giolitti, nell'anno in cui Benito Mussolini veniva nominato direttore de «L'Avanti!». Ottant'anni dopo, il Paese che aveva conosciuto la più importante storia migratoria del Continente era diventato meta di immigrazione: il disfacimento del blocco socialista aveva portato sulle coste italiane migliaia di profughi albanesi, che con gli sbarchi in Puglia dell'estate del 1991 molto avevano inciso sull'immaginario nazionale. E già era la volta dei rumeni e dei primi magrebini, i vu' cumprà che si incontravano con le loro merci esotiche sulle spiagge e via via più numerosi nelle città italiane. Una legge necessaria, dunque, per un'Italia che, come dichiarava allora la Boniver, «nel giro di una generazione diventerà una società multietnica, multirazziale, multiculturale». Ma se questo era l'obiettivo, la legge 91/92 l'ha mancato.

Secondo il testo definitivo, infatti, italiani lo si è sostanzialmente per nascita: da madre cittadina e non solo da padre, come prevedeva la legge del 1912. Cittadini ius sanguinis nati in Italia, ma anche all'estero: figli, cioè, di quella generazione di emigranti che spesso avevano dovuto rinunciare alla cittadinanza di origine per poter acquisire quella di destinazione. Molto semplificate risultano, infatti, le pratiche per l'acquisizione della cittadinanza per «lo straniero del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita».

I malpensanti di allora scrissero che si trattava di un favore fatto ai partiti di governo: il sistema politico che aveva retto l'Italia nel dopoguerra stava sfaldandosi e i sondaggi parlavano chiaro: gli italiani all'estero avrebbero votato Dc e Psi. Andreotti, presidente del consiglio al momento del varo della legge, risultava il personaggio politico più popolare.

E i nuovi cittadini? E coloro che avrebbero fatto dell'Italia un Paese multiculturale, come gli Stati Uniti o la Francia?

Adozioni e legislazione sugli apolidi a parte, due sono i casi previsti dalla legge per i cittadini extracomunitari.
Il primo riguarda la persona nata in Italia (straniero alla nascita perché figlio di straniero) che abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età e dichiari di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno da tale data. È questa la formulazione dello ius soli ancora vigente: per tutti quei ragazzi che in Italia vivono, studiano, fanno progetti, questa è l'unica via per accedere alla pienezza dei diritti civili e politici. Solo a diciotto anni e mentre i loro genitori continuano a rimanere stranieri.
Il secondo caso che la legge prevede, infatti, riguarda le prime generazioni: coloro che in Italia sono arrivati adulti o, comunque, sono nati altrove. Dopo un periodo di residenza di dieci anni, continuativa ma soprattutto legale (annullando cioè la permanenza non regolare, clandestina, come si dice: la realtà della quasi totalità degli immigrati), lo straniero può richiedere la naturalizzazione, attraverso la quale il «presidente della Repubblica, sentito il consiglio di Stato, su proposta del ministro dell'interno» può «concedere» la cittadinanza. Una procedura altamente discrezionale, condotta essenzialmente dalle questure e dalle prefetture e, quindi, secondo criteri di pubblica sicurezza; che impiega in media tre anni per concludersi e finisce per scoraggiare buona parte degli stranieri «lungo-residenti».

«Il 1970 è l’anno in cui per la prima volta il saldo migratorio è positivo, eppure nel 1992 legiferiamo ancora come un paese di emigranti», sintetizza Claudia Barbieri. A più di venticinque anni di distanza, l'inadeguatezza della legge emerge non solo sul piano del diritto, che «pone l'Italia all'estremo limite previsto dalle normative degli altri Stati dell'Unione europea», dove i percorsi per le naturalizzazioni sono più brevi e flessibili e lo ius soli permette di ottenere la cittadinanza durante la minore età; ma è soprattutto sul piano sociale e politico che questa legge denuncia lacune e ritardi. Delineare le norme di accesso alla cittadinanza non vuol dire solo riconoscere diritti e attribuire doveri ai singoli: significa definire il profilo di uno dei tre elementi costitutivi dello Stato, il popolo. Gli altri due sono il territorio e la sovranità. E uno Stato che non sa vedere e accompagnare i mutamenti storici che avvengono sul proprio territorio, riconoscendo la piena sovranità a coloro che quel territorio abitano e costruiscono, non solo è fuori dalla storia, ma rischia il ripiegamento comunitario o etnico degli esclusi, che cercheranno identità fuori dallo spazio di rappresentanza democratica a loro precluso.

Si parla poco di attualità a scuola. Ma il dibattito che ha accompagnato le proposte di modifica alla legge sulla cittadinanza ha avuto largo ascolto nelle aule italiane. Soprattutto per incredulità: era difficile spiegare agli studenti perché i loro compagni non fossero ancora considerati italiani di diritto.

Il Ddl 2092, «Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, e altre disposizioni in materia di cittadinanza», introduceva il così detto ius culturae:  i minori stranieri avrebbero potuto ottenere la cittadinanza dopo un ciclo completo di frequenza scolastica se nati in Italia o arrivati prima dei 12 anni e al conseguimento del titolo conclusivo del corso di studi se giunti comunque entro i 18 anni.   

Dopo essere stato approvata dalla Camera nel 2015, la proposta di legge ha subito durissimi attacchi, che ne hanno distorto il senso trasformandola da strumento necessario per riconoscere un fatto a referendum politico pro o contro immigrazione. Nell'autunno del 2017, a pochi mesi dalle elezioni, il Senato ha rimandato la discussione del testo a data da destinarsi.