Il 2 gennaio 1966 ad Alcamo, in Sicilia, la polizia fa irruzione nella casa in cui è tenuta prigioniera la diciassettenne Franca Viola, trascinata via  a forza da casa sua il giorno di Santo Stefano, sequestrata  e violentata da Filippo Melodia, con cui aveva tempo prima rotto il fidanzamento dopo che l’uomo era stato arrestato per furto e appartenenza a una banda mafiosa.

La ragazza viene liberata e Melodia arrestato con i suoi complici, con l’accusa di sequestro di persona e violenza carnale su minorenne. L’intervento della polizia era stato concordato con i genitori della ragazza che, proprio per consentire l’arresto in flagranza del Melodia, avevano fatto finta di accettare il fatto compiuto e l’inevitabilità del matrimonio cosiddetto riparatore. In quegli anni, infatti, e ancora fino al 1981 quando la norma venne definitivamente cancellata dal codice penale, il matrimonio non “rimetteva a posto” le cose solo agli occhi dell’opinione comune. Cancellava anche il reato di rapimento e di stupro. Facendo liberare la ragazza e consegnando il suo violentatore alla polizia, i genitori rifiutavano precisamente questa soluzione, restituendo a Franca, allora minorenne, la sua libertà di scelta e di vita. Una libertà che la giovanissima Franca esercitò fino in fondo, in contrasto con gli usi prevalenti a quel tempo e nella sua comunità, ribadendo anche in tribunale  la propria indisponibilità a sposare il suo violentatore. Negando che si era trattato di una “fuitina”, fatta in accordo dai due per forzare il matrimonio contro il parere dei genitori di lei, come sosteneva la difesa. Nel clamore suscitato dal processo a livello nazionale, più per l’inaspettato rifiuto della ragazza che per la gravità dell’accaduto, Franca mantenne ferma la propria posizione, nonostante gli attacchi pesanti alla sua “moralità” e nonostante, secondo la morale del tempo,  fosse stata “disonorata” pubblicamente – addirittura a livello nazionale a causa del processo - dal rapimento e dallo stupro subito.  Al suo fianco c’erano, appunto, i suoi genitori. Non volevano sacrificarla per sottostare al potere intimidatorio che aveva la famiglia di questi ad Alcamo, dove abitavano entrambe le famiglie, nonostante dopo la rottura del fidanzamento avessero subito minacce e aggressioni. 

Gli eventi del 2 gennaio, perciò, segnano una doppia sfida al potere. Una sfida a una morale, sancita dalla legge, che proteggeva il maschio aggressore mentre riduceva la donna a un corpo violabile impunemente, purché sotto la protezione, anche ex post, del matrimonio e alla prepotenza della malavita locale. Una sfida anche alla complicità corriva e ipocrita dell’opinione comune, pronta a condannare la vittima “disonorata” e ad ammirare il violento capace di prendersi ciò che vuole.

Ricordo negli stessi anni una situazione analoga per sequenza dei fatti – stupro seguito da offerta di matrimonio riparatore – ma non per finale. Infatti l’uomo, un giornalista, che aveva stuprato una zingara minorenne se l’era cavata sposandola, sotto lo sguardo divertito e un po’ compassionevole dei suoi colleghi (e di qualche collega) che avevano fatto reportage sulle nozze e sulla vestizione della zingara sposa. A differenza di Viola e invece come molte altre prima e dopo di lei, l’adolescente zingara non trovò nessuno che le aprisse la possibilità di rifiutare il bruto che l’aveva stuprata e lasciarlo alla sua giusta punizione. Purtroppo, nonostante allora l’episodio avesse avuto un certo clamore a causa della differenza sociale degli “sposi” e data la professione dell’uomo, non ne è rimasta traccia, almeno nel vasto mondo del web. Devo perciò affidarmi solo alla mia memoria, da cui non emergono ricordi di articoli a sostegno della ragazzina o di scandalo per l’ipocrisia di quel matrimonio probabilmente finito il giorno stesso, a meno che l’uomo non avesse deciso di abusare ancora un po’ della ragazza divenuta sua proprietà. In generale, i “matrimoni riparatori” che estinguevano il reato di stupro consegnavano legalmente la donna nelle mani di un uomo violento, privo di rispetto per lei, legittimandone la prepotenza a vita. È ciò che avviene ancora oggi, là dove il matrimonio riparatore è ancora permesso (non solo in alcuni Paesi in via di sviluppo, ma anche in alcuni Stati degli Stati Uniti, nonostante una legge federale lo vieti). 

Oggi il gesto coraggioso di Franca viene giustamente ricordato come quello che aprì alla cancellazione dell’istituto del matrimonio riparatore, innanzitutto perché fece da detonatore per l’apertura di un dibattito pubblico sulla questione in un paese ancora fortemente misogino e regolato, per quanto riguardava le norme sulla famiglia e la sessualità, dal codice civile e penale fascisti. Ma ci sono voluti quindici anni, la rottura culturale del Sessantotto e soprattutto dei movimenti femministi, perché  la sfida di Franca Viola e dei suoi genitori a una morale e a una legge ipocrite e fortemente maschiliste diventassero senso comune e portassero, appunto, all’abrogazione di una norma radicalmente incivile e biecamente maschilista. Neppure la riforma del diritto di famiglia nel 1975, che pure aveva cancellato l’asimmetria legale tra marito e moglie nel matrimonio rimasta in vigore in barba al dettato Costituzionale (art. 29), lo aveva eliminato come possibilità. Troppo tenace e radicata era l’idea, documentata anche da Pasolini nel suo documentario Comizi d’amore del 1965, che l’onore di una donna stesse, non solo, nel suo sesso, inteso come organo fisico, ma nel rapporto giuridico che aveva con l’uomo che ne faceva, letteralmente, uso, con o senza il suo consenso. Per questo si riteneva che l’onore di una donna fosse  alla mercé del potere degli uomini, di tutti in quanto potenziali violentatori. Sempre per questo le donne dovevano condurre una vita “sorvegliata”, per non esporsi ad essere “disonorate”. La verginità al matrimonio non era il “dono” che la donna faceva allo sposo (per altro senza reciprocità), come sostenevano taluni manuali per le fidanzate e la posta del cuore delle riviste, ammantando di buoni sentimenti una concezione del matrimonio che legittimava qualsiasi prepotenza, sessuale e non, del marito sulla moglie. Piuttosto era la garanzia che si trattava di “merce non avariata”, che come tale, analogamente al tradimento anche solo sospettato della moglie, “disonorava” indirettamente anche l’uomo cui era legata come moglie, figlia o sorella. Era lo stesso concetto di onore che stava alla base del mostro giuridico che andava sotto la dizione “delitto di onore”, non a caso abrogato, troppo tardivamente, contestualmente al matrimonio riparatore dalla legge 442 del 5 agosto 1981.

Ma ci vollero ancora altri quindici anni perché, sempre per la pressione del movimento delle donne, nel febbraio 1996, dopo un lunghissimo e controverso iter parlamentare, si modificasse la definizione del codice (fascista) Rocco secondo cui lo stupro era un reato non contro la persona, la sua integrità e la sua libertà, ma contro la moralità pubblica e il buon costume. Fino ad allora, la vittima dello stupro non era prioritariamente la donna, bensì, appunto, la moralità pubblica e l’onore della famiglia. Il gran rifiuto di Franca Viola e dei suoi genitori aveva già dimostrato l’inaccettabilità di questa definizione. Ci sono voluti tuttavia trent’anni e un mese e due diverse leggi perché il Parlamento italiano facesse propria una consapevolezza che era stata così chiara in una adolescente siciliana e nei suoi genitori contadini, al punto da essere disposti a pagarne il prezzo di dileggio ed emarginazione sociale. Trent’anni perché si desse seguito al gesto di sfida lanciato da una giovane ragazza di un  piccolo paese del Sud.

Con questo articolo si inaugura una nuova rubrica, curata da Rossella Ghigi. "Calendario civile" riprenderà date importanti della storia italiana, a partire dalle quali ritornare su temi ancora di grande attualità e per nulla superati dal trascorrere del tempo.