Quella tra Matteo Renzi e la televisione è una relazione pericolosa, un’attrazione continua. Il primo tra i quarantenni al potere in Italia, figlio (come tutti i coetanei) delle reti commerciali, ha trovato e trova nelle apparizioni sul piccolo schermo un contrappunto costante alla parabola politica, tra ascese, cadute, ritorni, inciampi, glorie. Basta mettere in fila alcuni dei tasselli per farsene un’idea piuttosto chiara. La partecipazione, giovanile e famigerata, a La ruota della fortuna, con Mike Bongiorno. Le interviste, prima di gruppo e poi individuali, con Daria Bignardi a Le invasioni barbariche. Il confronto all’americana in stile X Factor apparecchiato da Sky Tg24 mentre scalava il Partito democratico. Il rapporto di amore e odio con i talk politici, da pregiato ospite o da commentatore via tweet che ne certifica prematuramente la crisi. Le parole motivazionali riservate ai giovani di Amici, su invito di Maria De Filippi, con tanto di giubbotto di pelle. Le campagne elettorali e i loro officianti, da Bruno Vespa a Barbara D’Urso.

A questa già ricca raccolta si aggiunge in queste settimane Firenze secondo me, documentario dedicato al capoluogo toscano in onda su Nove dal 15 dicembre, nella prima serata del sabato sera, per quattro puntate di 90 minuti ciascuna (e disponibile on demand anche sulla piattaforma DPlay). Realizzato dalla ArcobalenoTre di Lucio Presta (agente tra gli altri di Roberto Benigni, Paolo Bonolis e Paola Perego, per breve tempo candidato Pd a sindaco di Cosenza), il programma testimonia uno sforzo produttivo ingente, con immagini maestose che per il primo episodio si snodano lungo il percorso che da Palazzo Pitti arriva a Piazza della Signoria, passando per il Giardino di Boboli, la Grotta del Buontalenti, il Corridoio Vasariano, la Galleria degli Uffizi, la Torre d’Arnolfo, la Loggia dei Lanzi.

Il progetto ha avuto una storia editoriale piuttosto accidentata, già a suo modo indicativa. Quando sono trapelate le prime indiscrezioni, arricchite da paragoni arditi con Barack e Michelle Obama, freschi di accordo produttivo con la piattaforma, l’obiettivo (quello dichiarato, almeno) sembrava essere Netflix: un contenitore a suo modo perfetto per la narrazione renziana, fatta di futuro, di anglofilia, di hype. Ma non se ne fa nulla. Alla ricerca di collocazione, ed evitata la Rai per sacrosante ragioni di opportunità politica, l’interlocutore successivo è Mediaset, in particolare Canale 5: dopo l’anteprima di pochi minuti nella neonata striscia preserale di Barbara Palombelli su Retequattro, Stasera Italia, sembra però che le trattative già intavolate siano saltate per ragioni economiche – troppi i soldi richiesti, troppo rischiosa la prima serata dell’ammiraglia. Il documentario ha finalmente trovato ospitalità sulle reti italiane del grande gruppo globale Discovery, e in particolare sul canale più generalista del bouquet, Nove, che l’ha presentato come “strenna” natalizia, un evento speciale della programmazione. Secondo la legge di un qualche contrappasso, in questo modo Renzi si è però anche ritrovato vicino di palinsesto del varietà comico di Maurizio Crozza (mai particolarmente tenero con l’ex premier) e persino con i programmi di Loft, braccio tv del “Fatto quotidiano”, tra le interviste di Peter Gomez e il late show di Andrea Scanzi.

Al di là delle discussioni sull’opportunità dell’operazione (svolta da un senatore in carica, ancora molto influente nel maggiore partito di opposizione), al di là delle interpretazioni sugli ascolti ottenuti (il risultato della prima sera, 376.000 spettatori e l’1,8% di share, sembra il dato perfetto per far discutere tutti, superiore alla media di rete ma forse meno di quanto ci si aspettasse), e al di là anche delle ovvie, inevitabili polemiche politiche (con gli sfottò di Salvini e la risposta dello stesso Renzi, soddisfatto), può valere la pena mettere in luce qualche aspetto di linguaggio televisivo.

1. La confezione. Le immagini formidabili di una Firenze perfetta, maestosa, patinata e gli alti budget produttivi pienamente “visibili” sullo schermo sono gli ingredienti principali, ma non i soli, di un titolo che attinge a immaginari molteplici e contraddittori, in modo sincretico, onnivoro. C’è una conduzione che richiama tutte le precedenti esperienze di divulgazione televisiva recente, da Piero e Alberto Angela ad Alessandro Cecchi Paone e a Roberto Giacobbo. Ci sono tracce delle raffinate operazioni fatte da Sky Arte, richiami ai Medici in forma di fiction firmata Lux Vide, sedimenti delle introduzioni all’esterna diventate tropo dei cooking show come Masterchef o Bake off, ci sono un po’ di Linea verde e Sereno variabile, ci sono persino (nelle musiche, per esempio) i video promozionali per le convention delle grandi aziende. L’operazione si vorrebbe piuttosto alta, il risultato è inevitabilmente ben più ibrido.

2. La narrazione. I testi di presentazione e raccordo, scritti dallo stesso Renzi con Sergio Rubino, sono un piccolo concentrato di parole-chiave della retorica renziana, nel suo versante positivo e ottimista. Lo stupore, la meraviglia, l’incanto. La (grande) bellezza. Il sogno, il futuro, lo sguardo in avanti. La cultura come ricchezza, l’apertura al mondo. Già la presentazione su Facebook è indicativa: “Sì, un sogno. Ho sempre pensato che Firenze fosse speciale, capace di tenere insieme la politica e la bellezza, gli scontri e i capolavori, l'innovazione e la poesia, il passato e il futuro […]. E in tempi come questi, quando la barbarie attacca la cultura, investire su un progetto educativo per Firenze è una sfida affascinante e difficile. La bellezza salverà il mondo, io ci credo davvero”. Tutto il documentario prosegue questo discorso, tra domande retoriche, enfasi quanto basta, crescendo di passione, metafore abbondanti. La retorica è diventata marchio di fabbrica, anche se talvolta rischia di avere un retrogusto di parodia.

3. La conduzione. Strettamente collegato alla modalità di racconto è lo stile comunicativo di Renzi, che si mette in gioco in prima persona, piega la descrizione della città e delle sue bellezze al proprio vissuto e alla propria agenda. Come ha scritto Aldo Grasso sul “Corriere della Sera”: “Tutto concorre a far sì che il soggetto principale sia Matteo Renzi”. C’è l’affabulazione che coinvolge lo spettatore in un cammino congiunto. Ci sono i racconti di infanzia e adolescenza, l’esperienza da sindaco, gli aneddoti personali. Ci sono le “fisse” legate al futuro, con la robotica, l’intelligenza artificiale, i Big data. E ci sono le ferite di un passato politico ancora recente e bruciante: la forza resiliente dell’identità italiana, gli impedimenti burocratici che impediscono il buon governo. La bottega di Cimabue e Giotto riporta in controluce la sua idea di partito (altro che la “ditta” bersaniana!), il racconto de La calunnia di Botticelli diventa metafora delle fake news, ma è evidente come gli esempi che infervorano Renzi siano ancora più concreti, ancora più puntuali. C’è la leggerezza (in positivo), c’è la superficialità (in negativo): insomma anche qui c’è l’insieme di doti e di limiti che sono già stati segnalati rispetto ai suoi libri, alla sua comunicazione (per esempio nell’analisi di Claudio Giunta) o più in generale all’intero suo percorso politico.

Firenze secondo me, ben al di là dei meriti specifici, diventa allora quel punto di incontro inatteso (e forse non previsto) che unisce le due traiettorie, dalla storia ormai pluridecennale, dell’uso politico della televisione e dell’impiego televisivo della politica: il conflitto di interessi e i talk show, la par condicio e il politainment, gli editti bulgari e i salotti domenicali. Da un lato, la sintesi vorrebbe essere contemporanea, debitrice di modelli statunitensi, fatta di coolness e di presa di parola in prima persona: gli Obama, come detto, ma pure la missione ecologista di Al Gore. Dimenticandosi però che il sistema della celebrità nostrano è un po’ meno brillante di quello hollywoodiano (diciamo così), e soprattutto che intanto c’è stato Trump. E allora, dall’altro lato, questo incrocio ritorna inconsapevolmente ai primi vagiti della tv in Europa, al modello del servizio pubblico, allo sguardo pedagogico e paternalista della divulgazione, all’istituzione in bianco e nero che porta nel salotto di casa una “finestra sul mondo”. Sia pure con toni più smart e personali. Riverniciare la superficie perché della sostanza nulla cambi. Mica solo in tv…