Napoli è senz’altro una delle metropoli mediterranee più studiate, (iper)narrate, analizzate. Scrittori, storici, filosofi, scienziati sociali di provenienze e in epoche diverse ne hanno setacciato aporie e contraddizioni, esaltato aspetti pittoreschi o stigmatizzato evidenti punti di crisi.

Il libro dello storico Paolo Macry (Napoli. Nostalgia di domani, Il Mulino, 2018) prova a riflettere sulla genealogia di tale continuità narrativa che riguarda la città e anche sugli effetti che questa ha provocato sull’identità urbana, politica e culturale partenopea. E lo ha fatto innanzitutto scrivendo un testo che prova a coniugare il rigore del mestiere di storico con uno sguardo autoriale, una sorta di incrocio tra mémoire e saggio, operazione quest’ultima che sembra riuscita almeno dal punto di vista del linguaggio. Il libro infatti sembra in grado di fuoriuscire dagli schematismi disciplinari che spesso rendono faticosa la lettura della storiografia contemporanea. Tuttavia, come spesso accade nei lavori di sintesi, la lunga durata della narrazione costringe ad alcune semplificazioni e omissioni. Nel caso di Macry, credo si sia preferito costruire una periodizzazione funzionale a un approdo nel presente dove la storia lascia molto spazio a riflessioni dedicate da un lato alle forme della politica amministrativa di parte del XX secolo e alle sue conseguenze nel presente, dall’altro a un’ampia considerazione sulle forme narrative che hanno prodotto quella che, parafrasando Benedict Anderson, Macry chiama “città inventata”.

Il libro è aperto da un excursus storico-urbanistico che parte dalla fondazione tufacea di Neapolis per arrivare alla speculazione edilizia delle Mani sulla città degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Un volo d’angelo che segue il fil rouge delle trasformazioni edilizie segnate costantemente da un iperbolico sovrapopolamento, caratteristica che ha decisamente condizionato anche aspetti della storia sociale e culturale della città. Una chiave di lettura spesso sottovalutata dagli storici, anche in tal caso: alcune fasi come il lungo Risanamento e la ricostruzione post-bellica avrebbero meritato un ulteriore sforzo di approfondimento, proprio per la loro complessità, non ancora del tutto esplorata.

Alla longue durée della trasformazione dello spazio urbano segue un pregevole tentativo di affrontare uno dei nodi più irrisolti della vicenda napoletana. Quello del suo popolaccio, della sua plebe, di coloro troppo spesso ridotti a Lazzari miserevoli. Coraggioso è stato, infatti, titolare Intelligenze il capitolo dove vengono prese in esame le forme diverse del lavoro, dei mercati e delle attività che sono state (e continuano ad essere) alla base della permanente ambiguità sociale che oscilla tra pratiche formali e informali, legali e illegali: traffici, contrabbando, figure come quelle dei magliari frequentate di rado dagli storici. Si tratta di una materia storiografica decisamente complessa, dalle fonti incerte, mobili e scivolose. Un glutine sociale e identitario che – probabilmente – rappresenta uno dei nodi più intricati della storia della città. Macry racconta il popolaccio con acume, soffermandosi sulle qualità autorganizzative e sulla capacità di sfruttare le opportunità sotterranee. Per una volta, non relegando questa importante componente della città alla mera criminalità più o meno organizzata.

È un popolaccio che, in certa misura, è anche al centro delle tre cesure indicate come spartiacque della storia cittadina: 1799, 1860, 1944. Tre date che segnano la riduzione di Napoli a provincia della nazione in un graduale scivolamento verso una marginalità politica che porta alla trasformazione da capitale di regno a capitale delle vergogne.

La Napoli dolente che Macry colloca tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XXI è una città che nella sua (auto)rappresentazione perde progressivamente l’elemento della miseria, della povertà, delle drammatiche condizioni di vita – abitative, educative e culturali – in cui continua a vivere una fetta importante della sua popolazione. Bambini, donne e uomini che di fatto continuano a essere il bacino di reclutamento criminale e la condizione sine qua non del perdurare della camorra e di comportamenti sociali violenti e aggressivi. Oltre a questo, però, l’analisi solo accennata della stagione che va dalla metà dei Sessanta fino al terremoto del 1980 lascia un vuoto importante in questa nostalgia di domani. Si tratta di un periodo estremamente fecondo sia dal punto di vista culturale sia da quello più propriamente politico su cui si basa la Napoli contemporanea. Sono gli anni durante i quali si sviluppano movimenti sociali e culturali che danno il via a una trasformazione significativa del proletariato marginale, attraverso l’azione di gruppi di intervento politico come l’Arn, la mensa dei bambini proletari e i disoccupati organizzati. E anche il momento di una grande stagione di inchieste e conoscenza della città e dell’area metropolitana portate avanti, tra gli altri, dal gruppo di Manlio Rossi-Doria della facoltà di Agraria di Portici, così come dalla sinistra democristiana legata alla figura di Ugo Grippo. È il periodo che vede il movimento musicale del neapolitan power, il teatro di Leo de Berardinis e Perla Peragallo, Antonio Neiwiller, Mario Martone e Toni Servillo. Ma è anche il tempo di esperienze drammatiche (e centrali) per la storia del Paese, come i Nuclei armati proletari e la colonna Br di Senzani. E sono gli anni in cui l’amministrazione comunista di Maurizio Valenzi, seppur in modo problematico, incide fortemente sullo sviluppo urbano e sul tessuto socioculturale della città. La fase di Napoli tra l’epidemia di colera del 1973 e il terremoto del 1980 continua ad essere la meno studiata dagli storici, sebbene sia probabilmente quella più dotata di fonti, estremamente ricche per tipologia e complessità, cui attingere.

Macry (svestendo i panni dello storico per indossare quelli del notista politico) preferisce soffermarsi sul primato di amministrazioni politiche segnate dalla preponderanza di figure carismatiche, dei “sovrani repubblicani”. Achille Lauro, Antonio Bassolino e Luigi De Magistris vengono ascritti ad artefici esclusivi di tre fasi della città che hanno condizionato lo sviluppo e il futuro più prossimo. Ciò che manca, a mio modo di vedere, è l’analisi delle configurazioni storiche che ne hanno permesso l’affermazione e prodotto il consenso. Se nel caso di Lauro e Bassolino ci si concentra sulle dinamiche di costruzione del potere e relativa caduta, nel caso di De Magistris (forse per la sue estrema attualità) si avverte la mancanza nel volume di un’analisi del sorprendente laissez faire economico di stampo – sorprendentemente – neoliberista che caratterizza l’agire amministrativo della giunta della “Napoli ribelle”.

Il libro si sofferma, infine, sull’identità debole della città. Piuttosto che di debolezza, forse, si potrebbe parlare di identità mutevole, oppure, per dirla con Benjamin, di porosità identitaria nella misura in cui sembra che, in poco più di un secolo di narrazioni, Napoli continui a riprodurre la sua Sonderweg di regno delle contraddizioni. Un’oscillazione tra rifiuto e sussunzione delle sue rappresentazioni che restituisce un processo continuo di de/costruzione dell’identità.

Eppure tra la città di Villari, White Mario e Serao, quella di Ortese e Malaparte fino a quella postmoderna di Bocca e Saviano continua a esistere una continuità nella rappresentazione che non è tanto quella del male e della sua negazione. Quanto, piuttosto, il suo essere un caleidoscopio, quella Dadapolis rinchiusa nel volume di Fabrizia Ramondino e Andreas Muller la cui assenza dalla nota bibliografica finale sorprende non poco.