È in corso nei media internazionali e italiani un ampio esame delle implicazioni politiche e istituzionali delle elezioni americane di midterm di domani. Tuttavia, pochi commentatori si sbilanciano sull’esito del voto, in quanto il panorama socio-politico è ambiguo e la possibilità di sbagliare enorme.

Proprio per questo può essere interessante riportare qualche previsione delle agenzie d’opinione, come Gallup Polls, Cnn, FiveThirtyEight (collegata al “New York Times”), per confrontarli con cosa succederà davvero. Queste agenzie hanno negli Stati Uniti una buona credibilità, anche se quelle dedicate in particolare agli exit-polls soffrono ancora della cantonata del 2016, quando inizialmente proclamarono la vittoria di Hillary Clinton.

I punti di partenza per valutare i risultati possono essere i seguenti: dato lo iato tra promesse elettorali e realizzazioni effettive, il partito del presidente normalmente perde voti e seggi, nella misura media di 25 posti alla Camera dal Secondo dopoguerra. In secondo luogo, esse sono pun referendum sul presidente in carica, accentuato dalla personalità dilagante e divisiva di Trump.

Ne risultano alcuni parametri per valutare le dimensioni di una vittoria democratica, ipotizzata da tutte le previsioni più autorevoli. Le recenti voci di un ritorno repubblicano sono poco riportate dalle previsioni elettorali. I potenziali votanti dei due partiti appaiono mobilitati in misura circa eguale. Questo sottolinea certo l’appeal di Trump in contrasto al fatto che, in un Paese a bassa partecipazione, dove portare alle urne i propri simpatizzanti è essenziale, alle midterm invece l’elettorato del presidente in carica è spesso “impigrito”. Tuttavia tra i votanti nel loro complesso i democratici godono da diversi mesi di un vantaggio di preferenze del 7/8% sui repubblicani, che non è enorme, ma dovrebbe garantire una vittoria significativa e soprattutto la fondamentale riconquista della maggioranza alla Camera.

In termini di voti, se i democratici vincessero circa 25 posti alla House, che va tutta rinnovata, il loro incremento non andrebbe molto al di là del fisiologico riequilibrio tra i due partiti, tipico della prima midterm. Ad esempio, in quella del 2010 il vistoso successo repubblicano consistette nella conquista di 63 seggi. Una vittoria democratica di oltre una trentina di seggi sarebbe assai significativa, una con meno andrebbe interpretata in sostanza come una sconfitta. Un pareggio equivarrebbe un trionfo repubblicano.

Questi ultimi potrebbero essere danneggiati dall’impopolarità di Trump che oscilla tra il 40 e il 45 % soltanto di giudizi positivi, sotto la media del 54% dei presidenti del dopoguerra. La correlazione tra impopolarità del presidente e insuccessi del suo partito alle midterm dice che quest’ultimo perde più di 35 seggi alla Camera se la popolarità del presidente sta sotto il 50%.

Per riconquistare la maggioranza alla Camera i democratici hanno bisogno di 23 seggi in più (FiveThirtyEight attribuisce loro oltre l’80% di probabilità di farcela). Tre giorni prima del voto, le previsioni elettorali davano un risultato alla Camera di 233 a 202 a favore dei democratici (la Cnn 225 a 210). Attualmente i repubblicani hanno una maggioranza che oscilla (posti vacanti, elezioni supplettive…) dai 230-235 rispetto ai 190-195 democratici. Il risultato previsto con 30-40 democratici in più sarebbe una vittoria rilevante.

La riconquista della maggioranza è il cuore del significato politico-istituzionale di questa midterm. Se ciò avvenisse i democratici romperebbero il monopolio repubblicano sulle istituzioni politiche del Paese, renderebbero molto difficile il proseguimento del programma di Trump e si avvicinerebbero da una posizione più favorevole alle presidenziali del 2020.

Questa avanzata sarebbe ancor più rilevante se le previsioni si avverassero nel rinnovo dei governatori dei singoli Stati, in lizza nella misura di 36 su 50. Di questi 23 sono attualmente repubblicani, quindi basta che i democratici ne conquistino alcuni, conservando in gran parte i propri che in maggioranza non sono in lizza, per assicurarsi la vittoria. Oggi i repubblicani predominano nella misura di 33 a 17,e la stessa FiveThirtyEight prevede un risultato finale di 23-24 democratici rispetto a 26-27 repubblicani, con un significativo incremento dei primi. La distribuzione prevalentemente urbana dei democratici, a fronte di una rurale e di città medio-piccole dei repubblicani, è riflessa dal fatto che, se la previsione si avverasse, i governatori del partito dell’asinello, pur restando meno dei loro avversari, governerebbero su circa 195 milioni di americani, rispetto ai governatori “dell’elefante” su circa 135 milioni.

I repubblicani potranno quasi certamente prendersi la rivincita e rivendicare almeno un pareggio elettorale, grazie al mantenimento della loro maggioranza al Senato, che oggi è uno striminzito 51 a 49. Qui essi godono del vantaggio opposto a quello dei governatori: i seggi da rinnovare sono 35, ma di questi 26 sono tenuti da democratici. Basta che i repubblicani ne conquistino qualcuno, mantenendo i molti dei loro controllati non in lizza, per cantare vittoria. Le previsioni danno la probabilità del loro continuato controllo del Senato a oltre l’80%, magari lievemente incrementando il vantaggio a 52 a 48, che sarebbe un ottimo risultato per il partito del presidente alle midterm.

Qui conta il peso di Trump che, impopolare tra la popolazione in generale, è rimasto sempre popolarissimo tra i votanti repubblicani. Tralasciando l’idea precedente di “un’onda rossa” repubblicana che mantenesse anche il controllo della Camera, il presidente sta concentrando il suo peso in alcuni Stati che hanno votato per lui alle ultime presidenziali ma hanno qualche senatore democratico, per portargli via il posto. E potrebbe riuscirci.