La contesa sullo ius soli. Lo scorso 30 ottobre Donald Trump ha annunciato di voler emanare un ordine esecutivo per impedire l’attribuzione della cittadinanza americana ai figli degli immigrati irregolari nati negli Stati Uniti. La dichiarazione, a una settimana dal voto di mid term, malgrado la sua strumentalità elettoralistica, ha riacceso la controversia sullo ius soli, infondendo nuova vita a una diatriba che risale alla fine dell’Ottocento.

Il XIV emendamento della Costituzione stabilisce, tra l’altro, che “tutte le persone nate negli Stati Uniti e soggette alla loro giurisdizione […] sono cittadini degli Stati Uniti”. La disposizione, ratificata nel 1868, aveva lo scopo di conferire la cittadinanza agli schiavi afroamericani affrancati tre anni prima dopo la guerra civile. Per affrettare l’integrazione degli ex schiavi, la modifica costituzionale sanava la condizione giuridica dei neri, ai quali una sentenza dalla Corte Suprema aveva negato nel 1857 il riconoscimento della cittadinanza statunitense a causa dell’ascendenza africana. Lo ius soli fu, dunque, concepito per favorire l’inserimento degli afroamericani nati negli Stati Uniti e non per facilitare l’accoglienza dei figli degli immigrati. Come effetto collaterale, però, la formulazione del XIV emendamento rese possibile la sua applicazione anche a questi ultimi.

Dagli anni Ottanta dell’Ottocento, quando l’immigrazione raggiunse una dimensione di massa, l’applicazione dello ius soli ai figli degli stranieri fu messa in discussione soprattutto nel caso degli asiatici, che erano ritenuti inassimilabili. Per ridurre i beneficiari del XIV emendamento, l’espressione “soggette alla loro giurisdizione”, anziché nel senso di “soggette alla sovranità degli Stati Uniti” perché nate all’interno dei confini del Paese, fu interpretata nell’accezione di “non sottoposte alla giurisdizione di un altro Stato”, come nel caso dei figli dei diplomatici stranieri e dei membri di eventuali truppe estere d’occupazione. Per altro, i nativi americani restarono esclusi dalla cittadinanza perché fino al 1924 furono considerati nazioni “interne e subordinate”. Grazie a tale lettura, la cittadinanza americana non sarebbe stata conferita neppure ai nati negli Stati Uniti da cittadini di Paesi che attribuivano la nazionalità attraverso lo ius sanguinis e che, in base a tale principio, consideravano propri sudditi anche i figli che gli espatriati avevano all’estero. Così, nel 1895, mentre l’immigrazione dalla Cina era sospesa, Wong Kim Ark – nato a San Francisco da una coppia cinese – si vide negato l’ingresso negli Stati Uniti dopo una visita nella terra d’origine dei genitori perché fu ritenuto un suddito del Celeste Impero. Wong si appellò alla Corte Suprema, sostenendo che la sua nascita in California lo aveva reso un cittadino statunitense grazie al XIV emendamento. Nel 1898 i giudici gli dettero ragione, interpretando il contenuto dell’emendamento nei termini della legittimità dello ius soli.

Pertanto, alla fine dell’Ottocento, il “sogno americano” e la concezione degli Stati Uniti come terra delle opportunità si arricchirono col beneficio della cittadinanza per i figli degli immigrati. Tuttavia, a distanza di meno di un secolo, lo ius soli tornò a essere il bersaglio degli strali di conservatori xenofobi. Di fronte alla crescita del numero degli immigrati irregolari, il XIV emendamento fu stigmatizzato quale misura premiale per i figli di chi aveva violato la normativa sull’immigrazione, se non addirittura come un incentivo all’arrivo di clandestini. Così si espresse, per esempio, Peter Brimelow in Alien Nation (1995) per chiedere l’abrogazione dello ius soli. Già quattro anni prima, il deputato repubblicano della California Elton Gallegly aveva proposto un emendamento in tal senso, pur senza conseguire risultati.

Al di là delle affermazioni propagandistiche di Trump per avvalersi del rancore xenofobo di parte dell’opinione pubblica e limitare la perdita di voti del partito repubblicano prevista nelle elezioni del 6 novembre, la strada dell’emendamento costituzionale appare l’unica percorribile per ridimensionare lo ius soli. Si tratterebbe, tuttavia, di un percorso lungo e complesso, in quanto gli emendamenti devono essere approvati con una maggioranza qualificata dei due terzi dei voti sia dalla Camera sia dal Senato per poi essere ratificati dai tre quarti degli Stati dell’Unione. Nell’ipotesi molto improbabile che un consenso così ampio possa essere raggiunto al Congresso, con i democratici avviati a riconquistare il controllo della Camera, un ostacolo altrettanto ostico si profila negli Stati, che si sono distinti nell’intralciare la politica di Trump sull’immigrazione. Ad esempio, nel 2017, il primo ordine esecutivo sul divieto d’ingresso negli Stati Uniti per i cittadini di alcuni Paesi a maggioranza musulmana vide diciassette Stati, più di un terzo dei componenti dell’Unione, ricorrere ai tribunali per bloccare l’applicazione del provvedimento. In alternativa, il Congresso potrebbe sancire che i figli degli immigrati irregolari, ancorché nati negli Stati Uniti, non sono soggetti alla giurisdizione del Paese perché i loro genitori vi sono entrati illegalmente. Però, neppure questa strategia sembra in grado di produrre frutti. Infatti, nel caso Plyer v. Doe del 1982, che cassò una legge del Texas per bandire i figli degli immigrati irregolari dalle scuole pubbliche, la Corte Suprema sostenne che la prole dei clandestini non può essere discriminata a causa della condizione giuridica dei genitori. L’esclusione dalla cittadinanza risulterebbe una forma di sperequazione di gran lunga maggiore dell’estromissione dalle scuole.

Precedenti e prospettive non sono dalla parte di Trump. Per ora, il suo velleitario proposito di negare la cittadinanza ai figli degli immigrati irregolari è solo un ulteriore colpo inferto all’immagine degli Stati Uniti come nazione di immigrati e terra delle opportunità, sebbene un’altra trentina di Paesi – inclusi Canada e Messico – ammettano oggi lo ius soli.