Andrea ha appena un anno. I suoi genitori hanno iniziato a litigare incessantemente quando lui era nella pancia della mamma. Così hanno deciso di separarsi, ma lo stanno facendo con grandi difficoltà e continue recriminazioni l’uno contro l’altro, in un clima di profondo rancore. Giulia invece ha otto anni. I suoi genitori si sono sempre trovati in gravi difficoltà economiche: la madre aveva un lavoro precario che ha lasciato quando ha saputo di essere incinta, mentre il padre ha un lavoro stabile e mal pagato. I continui litigi sulle spese di ogni giorno, segnati da una violenza psicologica ed economica da parte di lui mai denunciata, hanno irrimediabilmente deteriorato la fiducia e la stima reciproche dei due genitori, portando la famiglia a una situazione di insostenibilità quotidiana dei rapporti. Francesco ha tredici anni. Ha visto così tante volte il padre picchiare, minacciare e insultare sua madre che non intende più nemmeno vederlo. Lei ha finalmente trovato la forza di denunciarlo e rivolgersi a un’associazione contro la violenza ed è stata inserita, assieme a Francesco, in una situazione protetta. Il marito la minaccia, dice che il comportamento della moglie lo farà prima o poi impazzire e l’ammazzerà non appena ne avrà l’occasione. Li aspetta un iter processuale talvolta lungo e dagli esiti sempre incerti.

Ecco, ora proviamo a fare un esperimento mentale: applichiamo così com’è il Disegno di Legge 735 (noto come Ddl Pillon, dal nome del senatore leghista suo primo firmatario) sulle norme in materia di affido condiviso nei casi di separazione, assegnato alla Commissione Giustizia del Senato (attenzione: in sede redigente, non referente. Questo vuol dire che la votazione sui singoli articoli del disegno di legge avrà carattere di definitività e che il testo sarà votato dall’Assemblea in blocco, senza possibilità di fare emendamenti).

Ebbene, se fosse applicato, il piccolo Andrea, che ha solo un anno, dovrebbe passare metà del suo tempo (non meno di dodici giorni al mese compresi i pernottamenti) in un’altra casa, con il padre – un uomo che per cultura, abitudine e convinzioni non gli ha mai cambiato il pannolino, né gli ha mai dato il biberon – dato che la madre lo allatta. Giulia passerebbe metà del suo tempo in una casa, vicina alla scuola e ai suoi amici, e metà nell’altra, dalla parte opposta della città; e sarebbe destinata ad assistere di nuovo, quotidianamente, ai litigi tra madre e padre sulle singole voci di spesa che ciascun genitore ha fatto per lei; questo perché l’assegno di mantenimento per i figli non esisterebbe più, sarebbe sostituito con la spesa diretta da parte di ciascun genitore, scontrino alla mano. Sua madre, senza un lavoro (come d’altronde la metà delle italiane) potrebbe non riuscire a garantirle una abitazione con spazi adeguati: il che significa, per Giulia, non poter più abitare con lei, stando a quello che il DdL Pillon esplicitamente prevede. Francesco, invece, che pure non ne vuol sapere di stare col padre abusante, dovrebbe frequentarlo lo stesso e obbligatoriamente passare con lui almeno 12 giorni al mese; e potrebbe anche finire in una struttura specializzata che lo educhi alla bigenitorialità, qualora si ostinasse a non volerlo vedere. Sua madre deve pure incontrare il marito violento in presenza di un mediatore (cioè un pedagogista, un medico, un sociologo, uno psicologo o un avvocato che abbia frequentato un master di specializzazione e si sia iscritto al neonato albo dei mediatori familiari), nonostante i rischi e i danni psicologici a cui lei può andare incontro, con buona pace per la Convenzione di Istanbul che lo vieta esplicitamente (siamo pur sempre un Paese dove ogni due giorni viene uccisa una donna, nella metà dei casi per mano del partner o dell’ex partner, e in cui il rischio di femminicidio è massimo proprio nei primi mesi a partire da quando lei gli comunica di volerlo lasciare). Questo perché, prima di procedere alla separazione, secondo il DdL Pillon i coniugi dovranno iniziare obbligatoriamente un percorso di mediazione familiare, in cui il mediatore cercherà la conciliazione e dovrà mettere nero su bianco i motivi per cui uno o entrambi non ne vogliono sapere di restare insieme. Questi motivi saranno riportati al giudice che deciderà sui termini della separazione. In tutti i casi, anche di separazione consensuale, i genitori dovranno stendere un piano genitoriale, e se non lo sapranno fare (perché magari non hanno studiato), dovranno ricorrere al mediatore (sempre a loro spese, naturalmente!). Inoltre, quale che sia la situazione reddituale, il genitore che resta nella casa familiare dovrà pagare l’affitto all’altro se proprietario – mentre ora invece il tutto viene quantificato nell’assegno di mantenimento – il che si traduce per il secondo in una nuova voce reddituale da tassare. C’è poi da sperare che neanche Andrea o Giulia, come Francesco, manifestino il rifiuto di vedere uno dei due genitori, perché questi potrebbe ora appellarsi alla alienazione genitoriale (priva di fondamento scientifico e giuridico, ma spesso accampata dalle associazioni di padri separati) e accusare l’altro di manipolazione, con la possibilità di chiedere un risarcimento danni, togliergli l’affidamento e farlo addirittura decadere nella sua responsabilità genitoriale.

Gli scenari che si delineano seguendo una ipotetica concretizzazione di questo Ddl sono inquietanti. Viene messo nero su bianco quanto promesso dal contratto di governo, certo. Ma traducendo il principio (di per sé condivisibilissimo) di bigenitorialità non in una compartecipazione a ruoli, impegno e responsabilità, bensì in una questione quantificabile, in un obbligo imposto a genitori e figli anziché uno stimolo a una scelta relazionale di ogni giorno. È chiaro che siamo di fronte a un uso strumentale di questo principio (cosa c’è di meglio che togliere le parole di bocca alla parte avversaria e rivoltarle a proprio favore?), principio peraltro dimenticato su altre questioni che pure di bigenitorialità parlano, ad esempio sul doppio cognome o sull’estensione del congedo di paternità rispetto agli attuali quattro giorni (la cui obbligatorietà permette ai padri di assentarsi dal lavoro senza che il loro atto venga interpretato come disaffezione per la professione). Siamo ben lungi da un’idea di cultura della bigenitorialità quale risultato di una evoluzione dei costumi e delle credenze nella direzione di una più ampia partecipazione degli uomini nel lavoro di cura domestico. La promozione di una cultura di questo tipo è, infatti, l’obiettivo di molti interventi di educazione al genere e all’affettività rivolti ai giovani, duramente osteggiati da Pillon e compagni, secondo i quali non c’è niente di più pericoloso delle teorie del gender nelle scuole.

A ben guardare, d’altra parte, questa imposizione della bigenitorialità è in linea con l’idea che un figlio debba avere rapporti con un padre e con una madre per poter avere un buon sviluppo psicofisico, quali che siano le relazioni tra ciascuno di loro e la situazione intra-famigliare, e questa è la stessa idea che sostiene l’avversione verso le famiglie omogenitoriali da parte della stessa compagine politica. Più in generale, questo DdL può essere compreso alla luce di una concezione della famiglia sessista e classista da parte di una dirigenza politica intenzionata a rimettere in discussione diritti acquisiti e una intera visione dei rapporti famigliari che si è affermata negli ultimi decenni, grazie alle lotte di molti uomini e soprattutto di molte donne (che, non a caso, si stanno mobilitando in queste settimane contro il DdL). In gioco ci sono soprattutto le rivendicazioni di alcune associazioni di padri separati e gli interessi di alcune categorie professionali verso l’introduzione della figura di un nuovo professionista (una questione ben nota a Pillon, dal momento che, guarda caso, è lui stesso un mediatore familiare). E non nascondiamoci che rendere più difficile e costosa la separazione e il divorzio, ostacolare nei fatti la denuncia della violenza, chiedere di disporre di mezzi adeguati per avere l’affido del proprio figlio, obbligare al pagamento di un mediatore dopo il primo incontro significa colpire soprattutto le donne, più frequentemente le vittime di violenza domestica e più deboli nel mercato del lavoro. Insomma, questa proposta irrigidisce le norme a detrimento dell’analisi delle esigenze di ogni caso, passa sulla testa dei singoli, impone rapporti sofferti, e va ad aumentare le disuguaglianze: tra uomini e donne, tra famiglie ricche e povere, tra figli di coniugati e figli di separati. Un bel passo indietro nella regolazione dei rapporti di genere e di generazione di questo Paese.