Nessuna nuova rivoluzione dalle proteste del bazaar. “Sotto lo Scià, il bazaar avrebbe distrutto il regime se avesse deciso di chiudere i battenti per tre giorni, ma il bazaar non è più quello di una volta. È solo un nome, un simbolo”: era il 14 febbraio del 2000 e così diceva un venditore di tappeti del Gran Bazaar di Teheran alla Agence France Press. Oltre diciotto anni dopo, il 25 giugno scorso, nel giorno in cui una protesta scatenava la serrata dello storico mercato e fulcro economico della capitale iraniana, un commerciante spiegava al quotidiano "Iran": “Chiudere il negozio ormai incide poco per noi. I nostri guadagni sono così bassi che chiudere il bazaar per un giorno fa poca differenza per noi”. Quello stesso lunedì di fine giugno, un giovane bazaari descriveva la dinamica degli eventi che hanno portato i venditori ad abbassare le saracinesche e a occupare le strade di Teheran con l’obiettivo di raggiungere il Parlamento: “Erano circa le 11 del mattino quando sono arrivate alcune persone e ci hanno ordinato di chiudere i negozi. Ci siamo spaventati e abbiamo chiuso”. Un altro aggiungeva: “Erano arrabbiati. Hanno detto che avrebbero distrutto le nostre vetrate. Sembravano persone furiose per l’aumento dei prezzi”. Nel giro di due giorni le proteste sono rientrate: in parte naturalmente disperse, in parte represse.

Esplorando le modalità di queste recenti mobilitazioni, si può giungere a due conclusioni, tanto semplicistiche quanto fallaci. Innanzitutto le proteste del bazaar sarebbero espressione della cosiddetta street politics, ossia di movimenti popolari spontanei, organizzati e con una forte spinta dal basso; in più la sollevazione del bazaar rappresenterebbe un vero e proprio afflato rivoluzionario capace di trascinare con sé grandi segmenti della società civile, come fu per la rivoluzione iraniana del 1979, che portò alla caduta del regime dello Scià Mohammad Reza Pahlavi. Queste letture sembrano guardare a una realtà avulsa dal suo contesto, ignorando i processi di trasformazione del bazaar e del suo ruolo, avvenuti a partire dall’istituzione della Repubblica islamica.

Storicamente il bazaar ha rappresentato il centro nevralgico della vita economica, luogo in cui i mercanti hanno proiettato sistematicamente la loro centralità commerciale e sociale in azione e mobilitazione politica. L’ingresso dei bazaari nel corpo rivoluzionario, al fianco di studenti, intellettuali, operai e insegnanti, risultò determinante per il successo della rivoluzione iraniana del 1979 che innescò il processo politico conclusosi con la nascita della Repubblica islamica. Nei quasi quarant’anni che hanno seguito quella rivoluzione polifonica, poi finita sotto l’ombrello dei sostenitori dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, il ruolo del bazaar è profondamente mutato, diventando elemento strutturale del sistema. Come ricorda lo studioso Arang Keshavarzian, autore di Bazaar and State in Iran. The Politics of the Tehran Marketplace, “la Repubblica islamica ha portato avanti una serie di politiche che hanno trasformato le modalità con cui il bazaar operava, indebolendo così la sua capacità volta alla mobilitazione politica”. Restringendone in parte il campo d’azione indipendente, attraverso l’imposizione di monopoli e una specifica gestione delle licenze, la neonata Repubblica ha fatto perdere gradatamente al grande mercato cittadino la sua più grande forza: la rete capillare che irrorava grosse componenti della società civile. Alla cosiddetta alleanza tra la moschea e il bazaar, tra i religiosi e i commercianti, la storiografia iraniana ha dedicato studi corposi e definizioni importanti. I “gemelli inseparabili” d’Iran erano proprio il mercato e la moschea per lo storico Ahmad Ashraf, ossia “i due polmoni della vita pubblica in Iran”, secondo Roy Mottahedeh e “una coalizione storica” per Said Amir Arjomand.

Eppure, negli ultimi quarant’anni, questo patto che sembrava indissolubile si è indebolito. Il 1979 ha segnato un cambio di paradigma, attuando una ristrutturazione radicale delle regole del mercato e della sua autonomia, aggiungendo – soprattutto negli ultimi quindici anni – nuovi centri economici, e quindi nuove fonti di competizione, al primato indiscusso del bazaar. A partire da quel momento, sono state rare le mobilitazioni contro lo Stato partite dalle botteghe del grande mercato di Teheran, anche se sono state registrate eccezioni degne di nota soprattutto tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila. Con il passare del tempo, alcuni tra i commercianti più potenti sono diventati parte integrante del sistema, sostenitori di una fazione conservatrice e ostile alle nuove riforme economiche. Altri, a seconda dei propri interessi e degli eventi, hanno cambiato bandiera.

Se torniamo alle sollevazioni del 25 giugno, così spettacolari ma altrettanto prive di qualsiasi ideologia a lungo termine, le vediamo inquadrarsi in uno schema di mobilitazione che supera il mito del bazaar del passato: appaiono assolutamente non spontanee e non connesse a un network politico consolidato che parte dal basso. Il sospetto è che le istanze popolari siano state in parte manipolate. Dietro le modalità di organizzazione della protesta, rapida nella diffusione e con precisi ordini d’azione provenienti dall’alto con un sistema di intimidazione, si scorge un’insofferenza allo status quo, figlia di una frizione profonda tra i gruppi di potere. Sono le élite a combattere in questo momento, per difendere, in primis, i propri interessi, in un momento in cui il dollaro ha toccato quasi 100 mila rial sul libero mercato, contro i 45 mila del cambio ufficiale fissato dal governo, e, inoltre, per proteggere il bazaar, il cui potere economico è stato eroso nel tempo: da un lato, dalle politiche di stampo neoliberale, contro la corruzione e volte alla trasparenza delle transazioni, volute dal presidente moderato e pragmatico Hassan Rouhani, e, dall’altro, dalla corsa ai centri commerciali, spesso costruiti da compagnie che in diversi casi fanno capo alle Guardie Rivoluzionarie.

Tuttavia, delineare i contorni di una strategia delle élite per indebolire gli avversari, spaventare i nemici e delegittimarne le capacità di gestione non significa trascurare un malcontento e un pessimismo diffusi ormai in tutti gli strati della società, causati in modo particolare dall’inflazione, che ha costretto gli iraniani a vedere dimezzato il loro potere d’acquisto, mentre il rial continua a toccare record negativi su euro e dollaro; dall’avvicinarsi delle nuove sanzioni statunitensi paventate dal presidente americano Donald Trump e, infine, dall’abbandono del Paese da parte della maggioranza delle aziende europee, in seguito all’uscita di Washington dal cosiddetto “Iran deal”, l’accordo sul nucleare firmato nel 2015 dai Paesi 5+1, l’Unione europea e l’Iran.

La presenza, quindi, di istanze popolari forti intorno al bazaar non vuol dire che si stia costituendo una massa politicamente organizzata e potenzialmente in grado di destabilizzare l’intero apparato, al momento impegnato in una resa dei conti parecchio rischiosa, mentre da Washington c’è chi – a ogni rivolta – ostenta sistematicamente un’ipocrita vicinanza al “popolo d’Iran”, lo stesso che continua a sanzionare.

 

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