All’inizio fu la divina sorpresa. Una festa del popolo del centrosinistra. Milioni di persone che si recarono a confermare la loro adesione al candidato dello schieramento anti-berlusconiano dimostrando che esisteva un’opposizione e aveva grande voce. I 4 milioni abbondanti che fecero la fila alle sedi istituite per le primarie di Prodi esprimevano il desiderio di esserci.

Non era certo in gioco la scelta del candidato, quella era già stata definita. Le primarie furono un elemento di mobilitazione e di energie dello schieramento progressista. L’esito del voto era del tutto rilevante rispetto al mezzo. La contrapposizione tra l’incoronazione napoleonica del leader del centrodestra, visto che lui stesso si era insignito del potere (in buona misura assoluto), e la partecipazione di milioni di persone simboleggiava il distacco politico-culturale tra due mondi. Questo significato, unito al grande successo di partecipazione, ha fatto sì che le primarie diventassero un idolo assoluto. Un tale esito aveva anche altre ragioni: un po’ per un atteggiamento imitativo dell’America simbolo di modernità, un po’ per la ricerca disperata di qualcosa di diverso rispetto ai riti tradizionali dei partiti, un po’ per il desiderio di scardinare assetti di potere interni consolidati, il Pd si è tuffato a capofitto nelle primarie elevandole a totem del proprio funzionamento interno.

Ad ogni modo le primarie, o più precisamente la scelta di leader e candidati (e raramente di policy) affidata al voto diretto degli iscritti – e talvolta anche dei sostenitori –, si sono diffuse in molti partiti e Paesi. Però siamo veramente sicuri che queste modalità di selezione della leadership siano le migliori e, soprattutto, le più democratiche? In linea di principio, l’opportunità di svolgere un ruolo nel processo decisionale intra-partitico aumenta la rilevanza (o la percezione della rilevanza) degli iscritti. Tuttavia, qual è il significato effettivo dell’empowerment, cioè del maggiore potere (apparente) degli iscritti? Il trasferimento del potere di scelta della leadership e, eventualmente, dei candidati agli iscritti ha veramente democratizzato i partiti? È quindi l’inclusione il modo principe per rivitalizzare il legame tra partito e società?

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 3/18, pp. 459-466, è acquistabile qui]