C’è un anniversario che è passato completamente sotto silenzio. Un anniversario importante, tale da avere di fatto cambiato la vita di tutti gli europei in maniera concreta. Il 1° luglio del 1968, con un anno e mezzo di anticipo sulla scadenza prevista dal Trattato di Roma, veniva creata l’Unione doganale tra i sei Paesi della Cee, cioè l’eliminazione delle restrizioni quantitative e l’impostazione di una tariffa esterna comune che sarebbe stata applicata su tutte le merci in arrivo a un porto di entrata della Comunità economica.

Dal 1962 la Comunità si era data un regolamento riguardo alla politica agricola comune, organizzando l’agricoltura secondo i desideri principalmente francesi (Charles de Gaulle è il protagonista indiscusso di quel negoziato), ma è con il 1968 che si ha quel cambio di passo che, se da un lato porterà a un graduale e costante peggioramento dialettico delle relazioni commerciali con gli Stati Uniti e con altri Paesi terzi, dall’altro contribuirà a fare dei Paesi della Cee un kombinat economico-commerciale sempre più coeso e integrato.

Unione doganale. La denominazione non rende l’importanza della realizzazione concreta. Significava non solo assenza di dazi alle frontiere interne tra gli Stati membri dell’Ue e la definizione di dazi doganali comuni sulle importazioni da Paesi extra Cee; ma in prospettiva la definizione di norme d’origine comuni per i prodotti provenienti da Paesi extra Cee e la determinazione di un valore in dogana condiviso da tutti i partner.

Certo, non tutto era oro quello che luccicava: tra i sei sarebbero rimaste in vita ancora per anni quelle «barriere improprie» rimosse solo dalla Commissione Delors in via definitiva: regolamenti di fabbricazione diversi da Stato a Stato, omologazioni nazionali, norme e codicilli che ostacolavano di fatto la completa libera circolazione delle merci in barba a fondamentali sentenze della Corte di giustizia come quella – celeberrima – sul «Cassis de Dijon» del febbraio 1979. Però, viene da pensare, la realizzazione del mercato unico europeo del 1992 non sarebbe neppure stata pensabile senza l’importante precedente dell’Unione doganale del luglio 1968.

Colpisce quindi il generale silenzio sull’anniversario: il 1968 è anno sicuramente cruciale per tanti motivi «altri», dalla contestazione studentesca all’escalation statunitense in Vietnam, ma lo è anche per l’avvio, inarrestabile, dell’integrazione economico-commerciale secondo una time-line impressionante nella sua costanza e persistenza. Charles de Gaulle si dimette nell’aprile del 1969 e il successore, Georges Pompidou, convoca una conferenza all’Aja durante la quale, nel dicembre dello stesso anno, cadono le resistenze golliste all’ingresso della Gran Bretagna nella Cee. Si decide inoltre di approfondire la cooperazione politica europea alla ricerca di una politica estera comune, di studiare un maggiore coinvolgimento del Parlamento europeo nel processo comunitario, di studiare le possibilità di una Unione economica e monetaria entro il 1980.

Le speranze non corrisponderanno ai fatti. Nel 1971 Nixon fa un bel «regalo» agli europei, in particolare, e a tutto il resto del mondo, mandando in soffitta l’accordo monetario di Bretton Woods e svalutando il dollaro rispetto all’oro: tutte le valute europee risentono del colpo e comincia una lunga stagione di instabilità monetaria ed economica, amplificata, nel 1973, dallo choc petrolifero. Tuttavia la Comunità, pur non passando indenne – in particolare l’Italia – da queste crisi, riesce a reagire. Sul piano monetario col «serpente monetario» (un accordo per stabilizzare il cambio tra le monete europee e tra queste e il dollaro) e con la crisi petrolifera del 1973 dimostra una inattesa intraprendenza avviando il dialogo «euro-arabo» coi Paesi arabi dell’Opec. Anni di terribile sofferenza per i mercati internazionali, anni di marce avanti e indietro, ma anche anni durante i quali si definisce l’obiettivo del Sistema monetario europeo, che presenta una Comunità sicuramente divisa sul piano politico ed economico, ma abbastanza coesa sul piano commerciale. Una sorta di condominio nel quale si litiga spesso durante le assemblee ma nel quale tutti sono convinti della necessità di preservare l’immobile nel suo complesso. Fuor di metafora, quell’immobile è il mercato comune e il suo aspetto più evidente: la convenienza della libera circolazione delle merci.

Tempo fa Giuseppe Di Palma, Sergio Fabbrini e Giorgio Freddi hanno definito l’Italia «condannata al successo» nelle relazioni con la Cee. Lo stesso si potrebbe dire per la Cee/Ue, che è passata attraverso le crisi degli anni Settanta grazie a due marce in più, che hanno fatto la differenza. La prima è stata sicuramente la collocazione internazionale dell’Europa occidentale all’interno del sistema della Guerra fredda, che ha garantito stabilità politica e un livello moderato di spese militari grazie all’esistenza della garanzia statunitense; la seconda è stata la convenienza che l’Unione doganale ha rappresentato per i Paesi europei, facendo di ogni negoziato commerciale una dialogo in cui la Commissione europea ha sempre detto la sua e ha potuto con successo armonizzare le iniziative dei singoli Paesi.

Il punto, oggi che si sente con ostinazione e persistenza ripetere il mantra della chiusura delle frontiere commerciali Stato per Stato, è proprio questo: la Cee è cresciuta dal 1968 in poi non grazie a una linearità nella volontà politica – volontà che spesso è stata solo consegnata a documenti programmatici messi in un cassetto; non grazie a una chiara e decisa azione per dotarla di istituzioni sovranazionali sul piano politico e internazionale. La Cee, oggi Ue, è restata un valore irrinunciabile perché ha immesso nel suo dna il principio del mercato aperto, al suo interno, e tendenzialmente controllato verso l’esterno, favorendo lo sviluppo delle diverse economie nazionali europee. In altre parole, parlare oggi di dazi doganali, di restrizioni commerciali verso l’esterno, di svalutazioni competitive nei diversi Paesi europei (ovviamente abbandonando l’euro) è come proporre a una persona sana di togliersi un rene per evitare il futuro insorgere di qualche malattia renale.

Pochi cittadini sanno, ad esempio, che nessun Paese europeo negozia più singoli trattati commerciali con Paesi terzi con il vantaggio del principio della «nazione più favorita» perché, in regime di unione doganale, tale vantaggio, ipotetico o reale, viene immediatamente esteso a tutti i Paesi dell’Unione, siano essi parte o meno dell’euro; molto più frequente che sia la stessa Commissione europea a negoziare accordi commerciali e a litigare con i Paesi terzi, come nel caso degli Stati Uniti di Donald Trump e dei proposti dazi sull’acciaio, o, come è successo nel passato, con la Cina per quanto riguarda gli accordi commerciali sui prodotti tessili. Terribile dirlo, col timore di deludere qualche nuovo arrivato nelle stanze governative italiane, ma vero: l’Italia ha perso gran parte della sua sovranità commerciale, insieme alla sovranità monetaria, e questo da molto più tempo rispetto al secondo fattore, rendendo quanto mai difficile, di fatto improbabile, un ritorno a una politica commerciale autonoma o, nel senso più tecnico del termine, «autarchica», cioè in grado di farsi le norme da sola.

Siamo, insieme agli altri Paesi dell’Unione, legati con il resto del mondo da una fitta serie di accordi commerciali comunitari che hanno visto, paradossalmente, dopo il 1973, impegnati soprattutto i britannici, abilissimi negoziatori commerciali; e legati, tra noi membri dell’Unione, ancora da quell’Unione doganale del 1968 che nel tempo si è trasformata, in maniera molto tecnica ma altrettanto sostanzialmente indolore, in mercato unico. Oggi si produce e si consuma in un modo identico da Lisbona a Varsavia, da Trapani a Helsinki, e questo è il valore invisibile del mercato unico, che gli addetti ai lavori conoscono bene, i consumatori apprezzano spesso, i politici ignorano regolarmente. Celebrare l’Unione doganale poteva essere un modo per ricordarlo: è stata persa un’occasione per mettere in luce, oltre alle lamentele, i motivi reali del nostro stare insieme.

 

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