Che cosa ci si poteva aspettare da due campioni che hanno fatto dell’euroscetticismo un pilastro della loro carriera politica? Matteo Salvini si è fatto fotografare con tutti i leader europei più nazionalisti: da Nigel Farage a Marine Le Pen, da Geert Wilders a Victor Orbán. Luigi Di Maio ha evitato frequentazioni così compromettenti; anzi, in alcune occasioni ha cercato di smussare gli angoli dell’antieuropeismo penstastellato, salvo lasciare al fondatore del suo movimento, Beppe Grillo, il compito di ribadire l’ostilità all’euro, rispolverando di tanto in tanto, all’occorrenza, la proposta di un referendum. Al solito: la sovranità popolare prima di tutto.

Vale la pena richiamare alla memoria i programmi elettorali dei due partiti. Quello della Lega è il più esplicito, se qualcuno se ne fosse dimenticato: “Abbiamo sempre cercato partner in Europa per avviare un percorso condiviso di uscita concordata. Continueremo a farlo e, nel frattempo, faremo ogni cosa per essere preparati e in sicurezza, in modo da gestire da un punto di forza le nostre autonome richiesta per un recupero di sovranità”. A fronte di un M5S che, più cautamente, si limita a citare la sovranità e l’indipendenza tra le linee guida della sua politica estera. Meglio non sbilanciarsi troppo col rischio di far emergere profonde differenze interne.

Ma poi qualcosa è cambiato. Va bene scagliarsi contro l’Europa per ottenere consensi in alcuni strati dell’opinione pubblica, in nome della sovranità nazionale e contro i vincoli che bloccano la crescita; ma, avvicinandosi l’ipotesi di governare, meglio essere un po’ meno netti. Bene o male, siamo un Paese che deve all’Europa gran parte della modernità di cui è capace.

Così, nel “Contratto per il governo del cambiamento”, per ora riposto in un cassetto, l’Europa è comparsa quasi di sfuggita in due o tre punti ed è piuttosto palese che i due firmatari dell’accordo, al di là degli slogan, non sappiano bene che pesci prendere. L’antieuropeismo, uno dei pochi punti dei loro programmi elettorali sui quali si poteva rintracciare una certa convergenza, sulle soglie di Palazzo Chigi è apparso meno netto. Nel Contratto ci si appella alla “tutela degli interessi dell’Italia in Europa” (p. 7), che diventa “tutela delle eccellenze del Made in Italy” (p. 9) quando si tratta di agricoltura, denunciando che “il governo italiano è stato remissivo e rinunciatario in Europa rispetto alle esigenze del settore agricolo” (ivi). Che l’interesse nazionale si debba esprimere prima di tutto negli interessi di qualche settore agricolo (evidentemente non quelli che esportano ma quelli che non riescono a esportare) riflette una visione un po’ arcaica. Ma non è questo il punto. Non si parla di Europa, invece, a proposito di banca, come se il prossimo governo non si dovesse trovare sul tavolo il dossier dell’Unione, e non si parla neppure di difesa. Banca e difesa, sembra di capire, sono molto meno importanti in prospettiva europea rispetto all’agricoltura.

Di Europa si parla però in tema di debito pubblico e deficit dove, giustamente, si “ritiene prioritario indurre la Commissione europea allo scorporo degli investimenti pubblici produttivi dal deficit corrente in bilancio”, in vista di una “ridiscussione dei trattati dell’Ue”, aggiungendo cautamente che il ricorso al deficit debba essere comunque “appropriato e limitato” (p. 17).

Resta, anzi, pesa come un macigno, il problema dell’euro. L’impossibilità di rimettere in discussione, anche parzialmente, la candidatura di Paolo Savona è stata all’origine una profondissima crisi istituzionale. Savona, e chi la pensa come lui, ha ragione quando dice che una moneta senza Stato non funziona; ma allora il problema non è quello di ritornare alle monete nazionali, quanto piuttosto quello di fare un passo avanti verso uno Stato europeo “leggero”, ma efficace.

Sull’immigrazione – l’altro tema dove tra Lega e 5 Stelle prima del 4 marzo è parsa registrarsi una certa convergenza – si ribadisce che “l’Italia deve ricoprire un ruolo determinante ai tavoli dei negoziati europei in merito alle politiche di asilo e di immigrazione”, nella prospettiva di un necessario superamento del Regolamento di Dublino” e nel “rispetto del principio di equa ripartizione delle responsabilità”, al fine di garantire “il ricollocamento obbligatorio e automatico dei richiedenti asilo tra gli Stati membri dell’Ue, in base a parametri oggettivi e quantificabili e con reindirizzo delle domande di asilo verso altri Paesi”.  Posizione assai ragionevole, ma ci si chiede: come farà Salvini a spiegarla all’amico Orbán?

All’Unione europea è dedicato uno degli ultimi paragrafi, laddove si dichiara l’adesione agli “obiettivi stabiliti nel 1992 con il Trattato di Maastricht, confermati nel 2007, con il trattato di Lisbona, individuando gli strumenti da attivare per ciascun obiettivo” e, in particolare: a)“creazione di uno spazio senza frontiere interne, il rafforzamento della coesione economica e sociale e l’instaurazione di un’unione economica” (ottimo, ma un po’ troppo generico); b)“estendere alla Bce lo Statuto vigente delle principali banche centrali del mondo per raggiungere un’Unione monetaria” (sembra voler dire che la Bce debba trasformarsi in una sorta di prestatore di ultima istanza); c)“affermare l’identità europea sulla scena internazionale”, in modo che “sia sganciata dall’immagine della supremazia di uno o più Stati membri in contrasto con il fondamento democratico dell’Unione” (significa forse che l’egemonia tedesca non è gradita?); d)rinnovare l’impegno per istituire “una cittadinanza dell’Unione” (ma non si tratta di “istituire”, perché è già stata istituita, caso mai si tratta di riempirla di contenuti); e)cooperare nel “settore della giustizia e degli affari interni” (concretamente che cosa vorrebbe dire?); f)“rivedere le politiche e le forme di cooperazione instaurate” sviluppando “il necessario acquis comunitario” per rendere più efficaci “i meccanismi e le istituzioni comunitarie”.

Tutto questo “richiede il rafforzamento del ruolo e dei poteri del Parlamento europeo […] e il contestuale depotenziamento degli organismi decisori europei privi di legittimazione democratica”. Che cosa significa? Si può rafforzare il Parlamento e, al tempo stesso (“contestualmente”), togliere di mezzo la Commissione?

Infine, si ribadisce l’esigenza di rivedere il Patto di stabilità e crescita, il Fiscal Compact e tutte quelle misure che rischiano di produrre (s)equilibri macroeconomici eccessivi.

Stando alla lettera del “contratto” non ci sarebbe da preoccuparsi. È vero, si tratta di propositi generici e non privi di contraddizioni. Ma non di un appello a marciare su Bruxelles per bruciare il Palazzo Berlaymont. Ed è proprio questo che dovrebbe preoccupare. L’Unione europea mostra evidenti segni di sofferenza: i vari Paesi membri non hanno una politica estera coerente, non hanno una politica capace di affrontare seriamente la crisi migratoria, hanno una moneta che resta in balia delle turbolenze speculative planetarie, mantengono politiche fiscali e di bilancio in molti casi tra loro incoerenti, divergono in termini di diseguaglianze, le istituzioni dell’Unione sono deboli, la fiducia delle popolazioni è in calo. Se si va avanti così i forti saranno sempre più forti e i deboli sempre più deboli: ma l’egemonia tedesca non si combatte con un’Unione più debole. Meno Europa, come vorrebbero i due alfieri della sovranità nazionale, vuol dire più Germania, perché in un insieme di Stati sovrani il più forte e il più efficiente assume inevitabilmente l’egemonia. Se si volesse veramente mettere le briglie alla supremazia tedesca e utilizzarla per il bene comune europeo bisognerebbe andare esattamente nella direzione contraria a quella di chi predica la sovranità nazionale. Ma la messa in pratica di slogan come «prima l’Italia e abbasso l’Europa» significherebbe inevitabilmente un’Italia molto più fragile là dove si prendono le decisioni per il futuro del continente.

 

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