È la classica missione impossibile quella di fare l’oroscopo alla legislatura apertasi il 23 marzo: non solo perché in politica comunque le variabili sono tante e imprevedibili, ma perché in questo caso neppure il quadro di partenza è decifrabile con chiarezza. Ciò nonostante cercheremo di proporre, con tutte le cautele del caso, una mappatura di quello che nel corso di questa XVIII legislatura ci troveremo ad affrontare. Il primo aspetto che colpisce è la fine della forma partito così come si era connotata in Italia, ma anche in altri Paesi europei, lungo l’arco del Novecento. Si trattava della convivenza dei meccanismi del sistema costituzionale rappresentativo con le forme della sociabilità identitaria. Alla mente di tutti sono presenti quelli che furono i classici «steccati» del sistema italiano che delimitavano i «mondi» delle nostre subculture politiche: l’area cattolica, l’area della sinistra più o meno marxista (di classe nel suo immaginario), l’area laico-liberale e l’appendice dell’area della destra post-fascista, che per certi versi era altra cosa, essendo nata da uno schema difensivo dei sopravvissuti a una fase storica, ma che poi si era rapidamente neo-ideologizzata per omogeneizzarsi con le altre. Dentro ognuna di queste aree poteva stare un solo partito oppure una pluralità di partiti; e quand’anche ce ne fosse stato uno solo c’erano poi varie correnti ad articolarlo.

Si era pensato che quel mondo fosse stato messo in questione a partire dalla fine degli anni Sessanta per logorarsi e dissolversi con l’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica negli anni Novanta del secolo scorso. Così era indubbiamente avvenuto sul piano sociale, dove quei «mondi» progressivamente cessavano di esistere come entità separate; ma, paradossalmente, non cedevano realmente il campo sul piano politico, dove le dinamiche avrebbero riproposto, o almeno cercato di riproporre, le tradizionali configurazioni solo opportunamente riverniciate e con etichette mutate. Il fatto che nel processo di dissoluzione dei partiti storici si sia assistito a un frantumarsi delle sedi di raccolta di quelle tradizioni, poi variamente costrette a forme di aggregazione in genere piuttosto precarie, non deve trarre in inganno.

A sopravvivere e a determinare continuità era stato il principio fondamentale che promuoveva il successo della forma partito tipica della democrazia italiana: il suo presiedere alla distribuzione delle risorse pubbliche con intenti di promozione dei propri mondi di riferimento e di calmiere sulle diseguaglianze, fossero di natura geografica, sociale, culturale. La competitività imposta dal sistema elettorale proporzionale garantiva l’impegno davvero indefesso della classe politica a servire questo obiettivo. Non è qui il caso di affrontare i problemi che l’esasperazione del consociativismo insito in questo modo di gestire la politica aveva portato nel sistema italiano: il più macroscopico, la distruzione degli equilibri della finanza pubblica e il conseguente debito mostruoso che ci grava sulle spalle, è richiamato continuamente.

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 2/18, pp. 250-257, è acquistabile qui]