L’analisi del voto del 4 marzo in Italia mette in evidenza una rilevante anomalia rispetto ai risultati della sinistra negli altri Paesi europei, dove pure non gode di buona salute. Se si guarda la mappa del voto lungo la Penisola, con i colori dei collegi assegnati ai diversi schieramenti, e la si confronta con quella francese dopo le ultime elezioni, o quella inglese per il Parlamento, o persino statunitense, a mancare all'appello, per la sinistra italiana, è il voto nelle città. Da Nord a Sud, la mappa dei colori non cambia: centrodestra e 5 Stelle si dividono larga parte dei collegi, anche nelle aree urbane. Ed è davvero un’eccezione il risultato positivo in alcuni collegi di Roma, Milano e Torino, perché se si considera l’area urbana e il numero dei voti nelle grandi periferie il risultato è una sconfitta netta sia per il Pd sia per LeU.

Questa differenza di risultati va al cuore di una grande anomalia politica del nostro Paese. Perfino in un periodo non certo positivo, è ancora da socialisti e laburisti che, in tutti gli altri Paesi, confluiscono principalmente i voti e vengono le idee più interessanti, le nuove leadership e le speranze di rilancio. Perfino dove, come in Austria e Olanda, i consensi si sono spostati a destra. La ragione è che in un dibattito pubblico dove ovunque sono al centro le paure – del futuro, della precarietà, dell'altro – è proprio nelle città che la sinistra, negli altri Paesi, è ancora capace di presentare un progetto di cambiamento comprensibile, realmente alternativo alla destra e ai populisti. Il che non significa ripiegare rispetto alla grande questione dell’immigrazione, ma lavorare per l'allargamento dei diritti e al contempo dare risposta ai problemi che affrontano milioni di persone ogni giorno nell’organizzare la propria vita e gli spostamenti nelle città. Nessuno a sinistra ha preso in mano la bandiera dei problemi e del cambiamento da portare nelle aree urbane. Non è una novità, ma è davvero incredibile come in Italia queste discussioni vengano derubricate a questioni locali, che riguardano i sindaci e, in alcune situazioni, le forze dell'ordine. Eppure rimane inspiegabile, anche perché è nelle città che vive la maggior parte delle persone (e dove quindi c'è il maggiore bacino di voti) e dove troviamo, tra l’altro, alcuni storici ritardi del nostro Paese da recuperare. Come nella dotazione di linee di metropolitana e tram, con conseguenze sulla vita e la disponibilità di reddito delle famiglie, oltre che sull’inquinamento e sulla stessa attrattività delle aree urbane, con tutto quello che vuol dire in un Paese con la storia e il patrimonio storico italiano.

Una riflessione su questi temi andrebbe aperta per guardare al futuro del Paese, oltre che per capire come la sinistra intende ripensarsi e rilanciarsi. Di sicuro oggi non ha alcun senso insistere su una tesi per cui lo sviluppo, come la creazione di nuovi posti di lavoro e la stessa lotta alle diseguaglianze, prescinda dai luoghi. Perché ovunque nel mondo è proprio nelle aree urbane dove si trovano oggi le maggiori opportunità e i più grandi problemi. Se dunque il futuro passa da qui, anche un ripasso di storia nazionale appare utile. Il Pci negli anni Settanta, e poi il Pds e i suoi alleati progressisti all’inizio dei Novanta, avevano ottenuto proprio nelle città grandi successi elettorali e posto diversi temi al centro dell’agenda politica nazionale. Fu il protagonismo delle forze di sinistra e dei sindacati nella lotta per la casa e nelle iniziative politiche per la scuola, i servizi nelle periferie e contro le speculazioni edilizie che portò il Parlamento ad approvare negli anni Settanta alcune fondamentali leggi che garantivano finalmente il diritto a un’abitazione dignitosa in quartieri con spazi verdi, asili, attività. E poi, vent’anni dopo, con l’elezione diretta dei sindaci, si aprì una nuova stagione che vide trionfare candidati progressisti da Venezia a Torino, da Catania a Palermo a Napoli, dentro un dibattito politico nazionale dove si tornava a parlare di città metropolitane, di finanziamenti per i tram e il trasporto pubblico locale, di programmi di riqualificazione delle periferie (si veda R. Della Seta ed E. Zanchini, La sinistra e la città, Donzelli 2013). Sono stati, tra l’altro, gli unici anni in cui in Italia è esistito un ministero delle Aree urbane. Anche questa è una grande anomalia internazionale, perché in tutti i Paese dell’Ocse esiste un organismo dello Stato che si occupa di città e di edilizia, per la banale ragione che si considerano questi temi imprescindibili per garantire un equilibrato e duraturo sviluppo economico, sociale, ambientale. Perfino in Paesi federali come la Germania o gli Stati Uniti, dove Trump ha nominato Ben Carson Housing and urban development secretary.

Non basta parlare di salari e pensioni o di riduzione delle tasse per vincere le elezioni. Non ha neanche senso inseguire con slogan il tema della sicurezza, come se fosse qualcosa di slegato dalle strade dove le persone ogni giorno aspettano un autobus. Occorre creare un legame tra i temi economici generali, quelli di cui si appassionano politici e quotidiani, e quelli che concorrono a creare il benessere delle persone e la vivibilità nelle aree urbane. Che è fatta molto dal tempo e dalla spesa impiegati per muoversi, dalle condizioni delle abitazioni in cui si vive, dal contesto sociale e dalla bellezza degli spazi intorno, e dunque dalla percezione della sicurezza da parte delle persone.

Tutti temi che sembrano non rientrare mai tra le priorità della sinistra nei programmi di governo o in campagna elettorale. Qui davvero tocchiamo con mano la tesi secondo cui la sinistra si sarebbe allontanata dai cittadini. È incredibile che qualcuno possa ancora stupirsi del trionfo dei 5 Stelle o della destra più estrema nelle periferie delle città italiane, in particolare al Sud. Il disagio delle persone negli ultimi quindici anni è aumentato, invece di diminuire, ed è sotto gli occhi di tutti, raccontato periodicamente da studi e numeri che lo descrivono in modo spietato. Il taglio dei trasferimenti ai Comuni – pari a 40 miliardi di euro dal 2008 secondo la Corte dei Conti - ha comportato una drastica riduzione della quantità e qualità di servizi essenziali per le famiglie. In questi anni nelle città italiane sono cresciute le diseguaglianze, con centinaia di migliaia di case vuote e al contempo l’aumento degli sfratti per morosità. Due milioni di famiglie vivono in condizioni di difficoltà legate al prezzo dell’affitto o alla rata del mutuo (cfr. lo Studio Nomisma per Federcasa).

Nessuno lo dice, ma le 700 mila famiglie in lista d’attesa di un alloggio di edilizia residenziale pubblica, e le molte di più che ne avrebbero diritto perché in condizioni di povertà, non avranno alcuna possibilità di accedervi. Semplicemente perché negli anni Novanta l’edilizia pubblica è uscita dall’orizzonte della politica nazionale, con il trasferimento della gestione alle Regioni e la svendita del patrimonio per fare cassa. E la non banale conseguenza è che oggi mancano le risorse per gli investimenti.

Anche la sinistra fa finta di non vedere che lo stesso patrimonio pubblico è non solo inadeguato come numeri – sono 800 mila gli alloggi disponibili - ma anche estremamente degradato, con un turn over bassissimo e, in alcune grandi città come Roma, Napoli e Palermo, occupazioni abusive e forti infiltrazioni della criminalità nella gestione delle assegnazioni. Secondo i dati della Banca d’Italia, dal 1993 il numero di famiglie in locazione con situazioni di disagio economico è più che raddoppiato, arrivando a superare il 35% del totale delle famiglie in affitto. Nel provincialismo della politica italiana si pensa che questi temi siano noiosi, superati e che non interessino a nessuno. Eppure basterebbe seguire lo scontro politico che contrappone il sindaco di Londra, Sadiq Khan, e il governo inglese in materia di risorse e poteri per affrontare la difficile situazione dell’edilizia residenziale. Kahn ha proposto un piano per realizzare 650 mila alloggi nei prossimi dieci anni, di cui due terzi pubblici per calmierare i prezzi e aiutare le famiglie. È di un piano di questo tipo, che dia risposta alla domanda di casa e ai ritardi nella riqualificazione delle periferie, che avrebbe bisogno il nostro Paese. Eppure nessuno ne parla. Così come nessuno si occupa di coloro che in Italia, nel 2018, ancora soffrono condizioni di disagio abitativo e sfruttamento lavorativo. Sono 450 mila, secondo le stime, coloro che vivono in baracche e rifugi di fortuna, in larga parte al Sud e nelle aree più degradate delle città. È vero che sono in larga parte non italiani, ma si tratta di persone e di lavoratori. E una sinistra che non si candida a dare anche a loro una speranza ha perso davvero la bussola. E forse è proprio dalla domanda di cambiamento che bisognerebbe ripartire per trovare risposta al fatto che gli italiani abbiano scelto di votare Salvini o Di Maio. Perché solo con una proposta comprensibile e attraente di trasformazione della vita nelle aree urbane si può sperare di modificare quell’immagine di un’Italia politica divisa in tre colori, con il rosso che si continua a ritirare nella parte centrale del Paese. E anche perché non è vero che le differenze scompaiono nella politica contemporanea. Al contrario, proprio la dimensione dei problemi dimostra che se la parola sinistra ha un senso oggi e un futuro è nella battaglia per una serie di diritti – istruzione, salute, cultura, ambiente – e nel dimostrare che è possibile costruire una moderna convivenza dentro spazi urbani finalmente più sicuri, accoglienti, accessibili per tutti.

 

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