La finzione della two-state solution ha retto per un quarto di secolo, o quasi. Fino all’arrivo di Donald Trump, rottamatore del politically correct anche in questo campo. Nella primavera-estate del 1993, quando in varie località della Norvegia si tenevano i colloqui segretissimi fra emissari di Peres e di Abu Mazen, con l’avallo di Rabin e Arafat, che dovevano sfociare nello storico accordo suggellato non a Oslo ma a Washington, la creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza sembrava ancora possibile. Certo, andavano sciolti alcuni nodi, intricati ma non insolubili – Gerusalemme, gli insediamenti, le modifiche dei confini, un limitato rientro di rifugiati, le clausole militari – ed era previsto che gli appositi negoziati si svolgessero fra il 1995 e il 1998.

Che ragionevoli compromessi fossero allora possibili è dimostrato da un nuovo round di colloqui altrettanto segreti condotti a Stoccolma dai due registi delle trattative di Oslo e dintorni, Yossi Beilin e Mahmud Abbas (Abu Mazen), che nell’ottobre 1995 produssero una poco conosciuta bozza di accordo sul final status – sia pur definita non impegnativa, e poi sconfessata da entrambe le parti – in notevole anticipo su quella tabella di marcia. Il problema non era dunque la fattibilità, ma la volontà politica. Ammesso che Peres e Arafat si fossero decisi a varare l’accordo proposto da Beilin e Abu Mazen, sarebbero stati in grado di sedare la ribellione all’interno delle rispettive fazioni?

L’uccisione di Yitzak Rabin pochi giorni dopo l’intesa di Stoccolma e poi la sconfitta elettorale di Peres per un pugno di voti nel maggio 1996 segnarono una battuta di arresto. I tre anni del primo governo Netanyahu imposero una serie di remore all’attuazione degli accordi di Oslo I e II sull’autonomia dei territori occupati e il rinvio dei negoziati sullo status definitivo della Palestina, che avrebbero dovuto concludersi nel 1998.

Nel 1999 il ritorno al potere dei laburisti consentì la ripresa del processo; non era irrealistico sperare di portarlo a termine contenendo il ritardo in due o tre anni. Sia a Barak che ad Arafat si possono imputare indugi e irrigidimenti che fecero sprecare questa ultima “finestra di opportunità”. Bill Clinton aspettò l’inizio del suo semestre da “anatra zoppa” per impegnarsi personalmente nell’indispensabile mediazione. Il lungo vertice di Camp David (dall’11 al 25 luglio 2000, a ventidue anni di distanza da quello presieduto da Carter con Sadat e Begin) fu un fallimento, perché non adeguatamente preparato. Clinton cercò di recuperare in extremis il tempo perduto e mentre il neo-eletto Bush junior stava per insediarsi alla Casa Bianca, il 23 dicembre 2000 presentò un suo canovaccio: i cosiddetti “Clinton parameters”.

Su quella base Israele e l’Olp, privi ormai della mediazione americana, continuarono a negoziare per tutto gennaio. All’inizio di febbraio, quando rimanevano ormai pochi nodi da sciogliere, la vittoria elettorale di Ariel Sharon mise definitivamente fine al “processo di Oslo”.

Pochi mesi prima, con la sua provocatoria “passeggiata” sui luoghi santi musulmani, l’ex generale aveva fatto traboccare il vaso, suscitando la seconda Intifada. Da premier decise di risolvere il problema non dialogando con Arafat, bensì attaccando militarmente il suo quartier generale a Ramallah. Ma fece anche il possibile per sbarrare la strada a un futuro recupero della prospettiva di una soluzione concordata della questione palestinese, dando un nuovo impulso alla politica degli insediamenti nei territori occupati (da lui già attivamente promossa da ministro dell’Edilizia nel 1990-92). Paradossalmente, fu lui a decidere il ritiro unilaterale da Gaza, previa distruzione dei (pochi) insediamenti ebraici, e a meditare una spartizione – sempre unilaterale – della Cisgiordania. Il Likud, di cui era il leader, non lo seguì; tanto che lui ne uscì, fondando il Kadima e acquisendo una poco credibile etichetta di “moderato” (almeno rispetto a Netanyahu).

Va detto che i primi insediamenti in Cisgiordania furono creati da governi laburisti (piano Allon) poco dopo la guerra dei Sei giorni. Ma motivati da esigenze di sicurezza militare, anche se al riguardo va rilevata una certa ambiguità. Il Likud, per la prima volta al potere nel 1977 con Menachem Begin, aveva abbracciato l’ideologia della graduale incorporazione dei territori occupati nel “Paese di Israele” (Erez Israel), la cui realizzazione doveva passare attraverso la creazione di un reticolo di città e villaggi popolati da coloni israeliani. Successivi governi a guida laburista rallentarono quel processo senza mai sconfessarlo, anche perché condizionati da accordi di coalizione con piccoli partiti religiosi.

Dopo l’uscita di scena di Sharon (rimasto in coma dal 2006 al 2014), i suoi successori Olmert e Netanyahu hanno portato avanti l’espansione e moltiplicazione degli insediamenti (sono oggi circa 200), senza abiurare – quanto meno nelle sedi internazionali – al principio della soluzione basata su “due Stati”. Soluzione destinata a divenire sempre più impraticabile grazie a quella strategia, ma tenuta in vita artificialmente, in prospettiva, da ricorrenti esercizi negoziali promossi dagli Stati Uniti o da schieramenti più ampi (il “Quartetto”), essenzialmente come alibi per il sostegno dato a Israele, e al fine di tenere buone le opinioni pubbliche arabe e puntellare la credibilità della Autorità palestinese guidata dal moderato Abu Mazen e insidiata da movimenti radicali.

Alla base della road map concordata nel 2002 come cornice a quei tentativi negoziali sta l’impegno della Autorità palestinese a contrastare gli attentati e il simmetrico obbligo per Israele di congelare gli insediamenti. L’Autorità palestinese ha ottemperato agli impegni, per quanto nell’ambito delle proprie capacità. Israele ha invece rivendicato la necessità di continuare a costruire. Bush ha abbozzato, Obama no; e questo ha causato il suo aperto dissidio con Netanyahu.

I predecessori di Donald Trump hanno disapprovato, chi più chi meno, la politica degli insediamenti, dichiarati illegali dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, ma senza esercitare pressioni su Israele. Trump incoraggia invece attivamente Netanyahu a proseguire la creazione di fatti compiuti e a sfidare le Nazioni Unite: è questo il senso del trasferimento dell’Ambasciata a Gerusalemme. Ma il rottamatore del politically correct va oltre, archiviando il mantra della two-states solution: uno Stato o due Stati, per me pari sono, questo è in sostanza il suo messaggio.

Dando via libera all’opzione di un unico Stato fra Mediterraneo e Giordano, cioè all’annessione della Cisgiordania, Trump è andato oltre le aspettative di Netanyahu. Il primo ministro israeliano sa bene che l’incorporazione di quasi tre milioni di arabi cisgiordani (Gaza rimarrebbe probabilmente fuori), da aggiungersi a quasi due milioni di arabi israeliani, comporta la prospettiva a medio-lungo termine del sorpasso demografico e l’esigenza immediata di introdurre una categoria di cittadini di terza classe. Cittadini, o meglio sudditi, senza diritto di voto, non essendo tollerabile che alla Knesset l’Olp o Hamas possano avere più seggi del Likud. E senza libertà di movimento, per gli stessi motivi di sicurezza che hanno ispirato la costruzione della grande muraglia di cemento, dichiarata illegale dalla Corte dell’Aja.

Procedere all’annessione significherebbe dunque formalizzare il regime di apartheid. Regime che di fatto già esiste. Sue caratteristiche principali, se facciamo riferimento al modello sudafricano defunto da un quarto di secolo, sono non soltanto l’esclusione dal voto e limitazioni alla libertà di residenza, ma la creazione di isole dotate di autonomia amministrativa e di scarse risorse economiche per il grosso della popolazione soggiogata. In Sudafrica si chiamavano homelands (vulgo: bantustans) e group areas (o ghetti). Nel caso palestinese questo arcipelago è la cosiddetta “zona A”, con la differenza che si tratta non di regioni rurali e sobborghi-dormitorio, ma di città. Una autonomia senza contiguità territoriale e quindi senza la prospettiva di evolversi verso l’indipendenza, che ha per Israele il vantaggio di accollare alla polizia palestinese l’onere di mantenere l’ordine nei centri urbani ma riservandosi di intervenire con i propri militari e servizi segreti.

Dire che Israele si trova di fronte a un dilemma è ormai un luogo comune: mettere fine alla occupazione della Cisgiordania o rinunciare a essere una democrazia. In altre parole, o due Stati o uno Stato con regime di apartheid. In realtà la maggioranza di destra che ormai governa stabilmente il Paese non ha alcun interesse a operare una scelta. L’annessione e la conseguente formalizzazione della distinzione fra cittadini e sudditi metterebbe in imbarazzo sia il Congresso degli Stati Uniti, sia gli altri Paesi amici (le cui simpatie sono però un optional).

La soluzione preferibile per il governo israeliano è la perpetuazione dell’attuale status indefinito della Cisgiordania, territorio occupato sottoposto a un’autorità militare, ma considerato sui generis, dato che il diritto internazionale non consente il trasferimento di popolazioni nelle zone occupate a seguito di conflitti bellici.

La violazione di tale norma giuridica si situa evidentemente al di sotto della soglia di tolleranza di Washington (e in fin dei conti anche degli altri Paesi occidentali). Diverso sarebbe se si passasse all'annessione formale. Un passo che Netanyahu non farà, e nel futuro prevedibile neanche i suoi successori. Si accontenteranno dell'attuale annessione di fatto, badando a usare la propria influenza sui mezzi di informazione e think tanks occidentali (americani in primis) per bandire il termine apartheid e per far balenare il miraggio di una futura soluzione concordata.

Recentemente si è tuttavia delineata una tendenza a passare a una sorta di annessione strisciante anche sul piano giuridico; ma a piccoli passi, così da non suscitare levate di scudi sulla scena internazionale. La Knesset ha approvato alcune leggi che estendono normative settoriali (ad esempio quella universitaria) alla Cisgiordania, e Netanyahu ha dichiarato di voler allargare questo processo. È chiaro che l’estensione del proprio ordinamento giuridico, quando da sporadica divenisse generale, sarebbe sinonimo di annessione. Del resto il concetto non è più tabù nel dibattito politico in Israele. Alla fine di questo cammino potrebbe esserci l’annessione ufficiale, non dell’intera Cisgiordania ma delle exclaves israeliane, cioè la zona C con gli insediamenti. L’America di Obama non lo avrebbe permesso; con Trump è diverso.

Per la popolazione palestinese cambierebbe poco. Il vero vulnus che annulla la speranza in un futuro Stato palestinese, e inoltre produce disagi alla vita quotidiana, è la creazione di una gran quantità di città e villaggi israeliani su tutto il territorio della Cisgiordania, collegati da una rete di strade che taglia fuori gli abitati arabi. È la realizzazione di quel disegno coltivato per mezzo secolo dalla destra israeliana – il “Grande Erez Israel” – che all’epoca degli “accordi di Oslo”, venticinque anni fa, quando i coloni erano circa 100 mila, poteva apparire reversibile, al prezzo di cessioni territoriali dell’ordine del 3-6% e del trasferimento di poche decine di migliaia di persone. Ma oggi, con mezzo milione di coloni, senza contare i circa 300 mila abitanti israeliani di Gerusalemme Est, non lo è più.

 

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