L’enorme flusso informativo a cui siamo esposti ci costringe continuamente a selezionare, scegliere e decidere, prima di agire. I simboli ci servono, pertanto, quali sintesi paradigmatiche per orientarci. Ricorriamo a queste scorciatoie in qualsiasi campo della nostra vita: dalle scelte d’acquisto più banali ai percorsi formativi o professionali che decidiamo di intraprendere. Automobili, vestiti, professioni, mete di viaggio, letture, rappresentazioni teatrali, partner affettivi incorporano tutti una dimensione simbolica, che permette di prediligerli o scartarli attraverso il loro facile collegamento a peculiari rappresentazioni della realtà.

È proprio il riconoscimento del valore simbolico – tanto di un leader politico quanto di un cioccolatino – che ha prodotto la centralità della comunicazione e del marketing in tutti i campi della nostra esistenza. Anche nella politica.

Tuttavia, nei principali settori merceologici c’è un momento della verità rappresentato dalla prova: il cioccolatino lo mangiamo, ci può piacere o meno. Viceversa, in tanti altri campi, fra cui la politica, questo momento è più opaco e intangibile. La politica si basa su idee, che – come ci ricordava Gaber quasi cinquant’anni fa – non si possono mangiare. La valutazione si fa quindi più ardua. I simboli devono trovare basi su cui poggiare.

Matteo Renzi ha rappresentato una prorompente rottura dell’ordine esistente. La sua baldanzosa giovinezza, la sua ambizione, la sua determinazione sono piombati sul corpo ripiegato della sinistra italiana. Se non dell’intera politica italiana. Normale, allora, che la sua figura suscitasse speranza in un’opinione pubblica che voleva “svoltare”. Nel corso di pochissimi anni queste stesse caratteristiche sono state valutate in modo opposto e sono apparse mano a mano come arroganza, ambizione, solipsismo.

L’uomo è stato travolto dalla sua stessa narrazione, per usare un termine che gli è caro. Pensiamo alla parola chiave della sua leadership – rottamazione – e al mood – l’atmosfera, il tono, lo spirito – entro cui l’ha collocata nella sua azione quotidiana: l’ottimismo.

Il termine rottamazione – Renzi lo ha ricordato spesso – ha una genesi casuale. Introdotta da un giornalista in un’intervista quale sintesi della sua azione di rinnovamento, fu assunta dal neo-leader come manifesto un po’ sbrigativo, ma efficace per la sua brusca definitività, del rinnovamento di una classe politica, di un metodo e delle politiche che intendeva perseguire. Un programma politico riassunto in una parola. Per la sua giovane età e lo stile assolutamente anomalo Renzi incarnava al meglio tutto ciò: ma (paradossalmente) non ha poi preso sul serio la rottamazione, trasformandola in mero cambiamento di classe politica, in semplice sostituzione. Richiamando Pareto, potremmo dire in circolazione delle élite, in cui un’astuta volpe subentra a ingrigiti leoni.

La rottamazione andava intesa, invece, come un legame non attribuibile al mero dato biografico, quanto, piuttosto, alla condivisione di uno stesso “stile di pensiero”, alla circostanza di partecipare – come ricordava Mannheim – “in modo parallelo alla stessa fase del processo collettivo”: alla condivisione del medesimo tratto esperienziale. Dunque, doveva essere collante generazionale, identificazione con un processo a cui si sentiva d’appartenere. Non era “vado io al posto dei rottamati”, bensì “venite con me a disarcionarli”. La dialettica fra l’io e il noi, che tardivamente e blandamente ha cercato di recuperare, era il cuore della rottamazione.

Quello che è stato da molti definito il suo più bel discorso, dopo la sconfitta subìta da Bersani nelle prime primarie, era incentrato proprio su questo concetto: “io ci ho provato e ho dimostrato che si può fare, provateci anche voi”, ciascuno nel proprio campo. Un coinvolgimento che si è rapidamente trasformato nel solipsistico “ghe pensi mi”. In questa “chiamata” Renzi poteva contare sull’accondiscendenza delle precedenti generazioni, sollecitate dallo stato d’impasse del Paese a fidarsi di nuove energie e contenti di poter maieuticamente – ognuno nel suo piccolo – aiutare i nuovi arrivati a scongiurare l’abusata metafora che l’Italia “non fosse un Paese per giovani”.

Intesa nel suo senso più pieno, la rottamazione chiedeva tempo, sforzo, sacrificio, impegno, difficoltà. Renzi, fraintendendola e riducendola a uno slogan, non ha compiuto quel cambio di atteggiamento necessario nel passaggio dalla stagione dell’assalto, della conquista del Palazzo a quella della gestione, del governo. L’ottimismo era necessario per la sfida, per nutrire la temerarietà del gesto; ma poi doveva essere sostituito dalla consapevolezza della gravità del momento. “Tocca a noi”, “aiutatemi”, “ci vorrà tempo, ma ce la faremo”. Queste sarebbero dovute essere le parole da pronunciare. È invece rimasto chiuso nell’ottimismo, nella rapidità di una riforma al mese.

Il suo reiterato ottimismo è stato considerato ingiustificato, e poi intollerabile; soprattutto dai suoi coetanei e dai più giovani, cioè proprio da chi maggiormente avrebbe potuto accompagnarlo nell’azione riformatrice e che, infatti, nella prima fase, lo aveva fatto.

Aver malinteso il motivo del suo successo ha reso fragile la sua leadership. Già resa zoppicante da un’altra mancanza, l’assenza di un substrato politico-culturale chiaro, percepibile. Fuor di metafora: rottamazione, riforme, velocità, ottimismo sono state difficilmente collocabili all’interno di un progetto politico, cioè di un ancoraggio che permettesse di interpretare meglio le azioni del leader. Per essere ancora più espliciti: la leadership di Renzi, come tante altre in Italia e in altri Paesi, non aveva alle spalle un partito e istituzioni forti, che permettessero di legare quel simbolo a riferimenti valoriali e politici chiari.

Questo aspetto è centrale per analizzare l’ampio dibattito sviluppatosi negli ultimi anni sulla leaderizzazione della politica. Anche Emmanuel Macron e Angela Merkel incarnano specifici valori politici e culturali, così come tanti altri. Ma lo fanno poggiando le loro leadership su istituzioni e organizzazioni politiche funzionanti. Renzi ha incarnato una leadership solitaria, certo giocata dentro il partito italiano più strutturato, ma comunque diviso e litigioso, un partito che spesso ha dato l’impressione di subirlo per mancanza di alternative. In altri termini, la quasi trentennale debolezza strutturale del sistema politico italiano ha contribuito anch’essa a rendere flebile la legittimazione della leadership.

L’efficacia di una leadership si misura sulla solidità delle basi sociali e politiche su cui poggia, oppure sulla corretta individuazione delle ragioni profonde che determinano i climi d’opinione. L’assenza della prima e il malinteso sulla seconda ha esposto la leadership renziana ai mille venti che soffiano all’interno di società aperte, dove le opinioni cambiano rapidamente. Si affermano, evolvono, consumano e declinano come mode effimere. Stancano. Anche Di Maio e Salvini, i leader oggi vincenti, dovrebbero rifletterci seriamente.

 

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