Il terremoto che ha colpito il centro Italia nel 2016 – il 24 agosto prima, poi di nuovo il 26 e il 30 ottobre, con quella che la gente del posto ha battezzato “la botta grossa”, e di nuovo a gennaio del 2017 – ha ancora una volta evidenziato i chiaroscuri che ormai segnano l’Italia da decenni. Da un lato l’incapacità, oramai strutturale, di lavorare nel lungo periodo per limitare i danni che derivano da eventi naturali imprevedibili nei modi e nei tempi in cui si manifestano. Dall’altro, all’opposto, la capacità straordinaria di reagire alle conseguenze dei disastri, seppure con strutture e personale in molti casi non adeguati al livello di emergenza. È un film che abbiamo visto molte volte, quando i media raccontano un Paese che “si raccoglie intorno alle popolazioni colpite” e descrivono con partecipazione “l’Italia migliore”. Mentre i telegiornali passano immagini di morte e di distruzione, migliaia di italiani manifestano concretamente la loro solidarietà, sempre più spesso ricorrendo alle donazioni via sms e telefono.

È accaduto anche per il terremoto del 2016, quando, tra le altre, la campagna #unaiutosubito promossa dal “Corriere della Sera” e da TgLa7 ha visto quasi 20.000 donazioni per un totale che, ad oggi, supera il milione e 500 mila euro. (Al 30 ottobre 2017 le cifre raccolte nel complesso risultavano così suddivise: 1 milione di euro per dotazioni e apparecchiature per la scuola; 3 milioni e 100 mila euro per i centri di comunità, 520 mila euro per il restauro di beni culturali mobili, per un totale di 4.620.000 euro raccolti).

Ho visitato i luoghi colpiti dal sisma nel giugno dello scorso anno. I moduli abitativi provvisori (le “casette”) ancora mancavano quasi del tutto. Ho visto un territorio abbandonato dallo Stato, dove non erano ancora state rimosse le macerie se non in minima parte, e dove la presenza delle istituzioni era affidata ai ragazzi dell’esercito, obbligati a pesantissimi giubbotti antiproiettile, che presidiavano gli incroci bloccando le vie d’accesso ai centri un tempo abitati. Cartelli con divieti di passaggio per ragioni di sicurezza, arterie fondamentali ancora abbandonate, qualche spianata assolata su cui lentamente i prefabbricati che sarebbero poi stati poco alla volta assegnati per sorteggio venivano scaricati. Scarsissimi se non del tutto assenti, ormai, i segni di una comunità.

I centri di aggregazione erano praticamente scomparsi, con pochissime eccezioni. Uno di queste era il bar di Angela, una signora di settantun’anni che gestiva in solitudine quel piccolo punto di ristoro in una frazione non distante da Amatrice: due locali, uno con il banco del bar, l’altro con una rivendita di generi alimentari. Un bancone per i salumi e i formaggi, due tavolini e un frigorifero per i gelati completavano l’arredamento. La luce che filtrava all’interno era poca, per cui le due plafoniere al neon appese al soffitto erano sempre accese nonostante la giornata di sole pieno. Sulla porta d’accesso pendeva una tenda di quelle fatte con le perline di plastica. Sulla vetrina un cartello a stampa: «Autodemolizione Antonini&Olivieri, Sant’Egidio alla Vibrata (TE) – offre un servizio gratuito a tutti i proprietari di automezzi (auto e furgoni) danneggiati dal sisma. Trasporto, demolizione, cancellazione Pra a costo zero».

Il bar di Angela – che ci lavorava, mi raccontò, da quando aveva quattordici anni – è in frazione La Picca. Un borghetto con qualche bella casa in sasso – curata, forse ristrutturata da seconda casa, come tante in queste zone – che convive con altri brutti palazzetti a due piani, costruiti in economia, dove il cemento e l’acciaio anodizzato degli infissi prevalgono. Le case di fronte sono pericolanti, ma il bar è aperto. Ed è uno dei rari punti vivi che si incontra per chilometri nel territorio incastonato tra le quattro regioni terremotate.

Rientrato a casa rilessi alcuni articoli che avevo messo da parte. In questi giorni ne ho ritrovato uno, tratto da “Abitare”, dove Stefano Boeri descriveva la “agghiacciante sequenza di pesantissimi tetti di cemento che nel crollo hanno schiacciato le strutture sottostanti. Finiti a terra ancora interi, con i cordoli di cemento armato realizzati negli anni Ottanta, quando erano considerati antisismici”. Fu proprio lo studio di Boeri che ebbe l’incarico di trasformare le donazioni raccolte dal “Corriere” per la popolazione terremotata in edifici per la comunità. In tempi rapidi ne furono costruiti due. Uno è subito fuori Amatrice. L’altro nei pressi di Norcia.

Dei disagi subìti dalle persone che hanno perso in alcuni casi familiari e amici e quasi sempre la casa da molti mesi non si sente più parlare. Le rassicurazioni delle giornate immediatamente successive alle scosse, “non vi abbandoneremo”, sono volate nel vento. E quei territori rischiano di non rivedere mai più un barlume di normalità. Nel frattempo chi assicurava che sarebbe stato ricostruito tutto “come prima, comprese le seconde case”, non è più al governo. La legislatura è finita e si è votato anche dove la gente ha passato l’inverno in soluzioni “abitative” di emergenza.

Ma sarebbe sbagliato dire che lo Stato non si stia più occupando di quei luoghi e di chi ancora li presidia con la propria presenza. Del terremoto si è tornato a parlare nei giorni scorsi, quando la Procura di Spoleto – eccolo anche in questo caso, lo Stato – ha messo i sigilli al Centro polivalente di Norcia, procedendo al sequestro preventivo della struttura. Certo, se la magistratura ha agito in questo modo lo avrà fatto sulla base di evidenze, come si dice. Le indagini sono in corso e vedremo quali esiti avranno. Eppure, vista da qui, tutta la vicenda assume un che di surreale. In un Paese dove le regole vengono violate continuamente, a uno dei più importanti studi di architettura del Paese viene contestato di avere realizzato il centro “in assenza del necessario permesso a costruire e dell’autorizzazione paesaggistica”. Secondo i magistrati la “non temporaneità della struttura” è dubbia. Troppo calcestruzzo nelle fondamenta per essere una struttura costruita con le procedure dell’emergenza-urgenza. Per il giudice “l’inapplicabilità della disciplina straordinaria post sisma sembra emergere inequivocabilmente dalla natura dell’opera”. Nel decreto di sequestro si contesta che la struttura fosse “indicata come ‘permanente polivalente in legno a uso sociale’, contrariamente a quanto previsto nella disciplina legale della procedura amministrativa seguita, la cui applicazione è limitata a opere temporanee”. Ancora, per il giudice “l’abuso edilizio commesso è destinato ad avere un’incidenza negativa sulle diverse matrici ambientali ed un impatto su una zona oggetto di particolare tutela”.

A poco è servito lo stupore con cui ha reagito chi si è visto recapitare un avviso di garanzia (Boeri, come direttore dei lavori, “come si fa a dire che non è temporaneo? È smontabile e rimontabile completamente, impianti inclusi. Allora anche tutte le casette non sono temporanee”, e il sindaco di Norcia, responsabile amministrativo). Il risultato è che ora quel punto di aggregazione non è più disponibile. Il risultato è che chi ha passato i drammi e i disagi di un evento devastante come un terremoto si trova ancora una volta lo Stato dall’altra parte, anziché dalla propria.

 

:: per ricevere tutti gli aggiornamenti settimanali della rivista il Mulino è sufficiente iscriversi alla newsletter :: QUI