Otto marzo 2018: siamo a due anni dall’obiettivo stabilito dal più ampio e longevo progetto di ricerca e advocacy sulle donne nei mezzi d’informazione, il Global Media Monitoring Project (Gmmp): #endmediasexism by 2020. Un obiettivo ambizioso. Perché porre fine al sessismo nei media significa non solo riconoscere tutti quegli stereotipi che sminuiscono la figura femminile, anche i più sottili, ma soprattutto costruire un nuovo immaginario collettivo: democratico, inclusivo, differente e progressista. A partire dai mezzi di informazione, per il ruolo che ricoprono, per il potere e la responsabilità che ne deriva e per il loro configurarsi ancora come “im-pari”. Se a fare notizia e a essere intervistati nei telegiornali, nei giornali radio e nei quotidiani di ben 114 Paesi al mondo (quelli aderenti al Gmmp) sono gli uomini nel 76% dei casi, a fronte di un’incidenza anagrafica mediamente pari al 50% a livello mondiale (dati Unpd, 2017), vuole dire che i mezzi d’informazione sono spazi (quasi) esclusivamente maschili e soffrono di un evidente deficit di democrazia. Se le donne sono visibili soprattutto come vittime o vox populi, mentre faticano a raggiungere il 20% come esperte o spokeperson – di associazioni, enti, istituzioni, partiti – nonostante in molti Paesi del mondo, certamente in Italia, siano entrate a pieno titolo nella vita pubblica e nel mondo del lavoro, questo vuol dire che i media riflettono una realtà androcentrica e vetero-tradizionale (per il dettaglio sui dati dei vari Paesi si rimanda qui, pp. 114- ss). Con il risultato di restituire al pubblico una realtà mistificata o, se si vuole utilizzare una definizione alla moda, una grande fake news. Una fake news alimentata, come tutte le fake, scrive Carlo Sorrentino, «da un processo cognitivo difficilmente eliminabile: la propensione a credere a quanto ci torna più comodo perché rafforza le nostre convinzioni, smorza le nostre incertezze, ci rassicura sulle nostre credenze».

Per esempio, la scarsa visibilità delle donne come esperte – tema che seguo con particolare interesse, essendo una delle ideatrici del progetto 100 donne contro gli stereotipi – dipende fondamentalmente da 3 fattori. Primo, le fonti interpellate per spiegare un evento o un argomento sono di solito persone autorevoli, la cui autorevolezza discende dalla posizione professionale, sociale o istituzionale occupata.  Così le donne risultano svantaggiate da un ritardo storico nell’occupazione di posizioni apicali in aziende, enti pubblici e privati, partiti, associazioni, istituzioni. Secondo, la scelta delle fonti di expertise ricade spesso su persone famose, rese note proprio dall’esposizione mediatica, e anche in questo caso le donne risultano sfavorite da una marginalizzazione di lungo corso. Infine, le donne sono sfavorite dalla scarsa autorevolezza che godono come gruppo sociale. Un fattore culturale che, come spiega uno studio internazionale dedicato alla comunicazione politica (Portraying Politics), incide fortemente sulla selezione delle fonti giornalistiche. «Nella maggior parte delle società, si presume ancora che le donne abbiano uno status inferiore agli uomini. Questi presupposti culturali si correlano alla pratica giornalistica e finiscono per privilegiare gli uomini». Ma la pratica giornalistica può essere cambiata. Come scrive Margaret Gallagher: «Il Gmmp mostra come la routine e le pratiche giornalistiche, quando non vengono messe in discussione, spesso sfociano nella realizzazione di notizie che vanno a rafforzare gli stereotipi di genere. Il più delle volte questo tipo di notizie sono semplicemente il risultato di un giornalismo pigro […] ma non è impossibile realizzare notizie gender sensitive. Si tratta di riflettere e produrre in maniera più creativa […] una corretta rappresentazione di genere dovrebbe costituire un criterio professionale come qualunque altro – bilanciamento, differenziazione, chiarezza – se si vuol fare giornalismo di alta qualità» («Inchiesta», n. 153, pp. 10–12).

Fare giornalismo di alta qualità non è facile, di questi tempi, con gli imperativi che il web ha imposto alle redazioni, anche quelle dei media mainstream. La velocizzazione della produzione giornalistica non gioca certo a favore della qualità dell’informazione. Ma la ridefinizione dei tradizionali criteri di newsmaking, imposta dal web, potrebbe giocare a favore delle donne, perché i criteri che hanno per lungo tempo stabilito cosa fa o non fa notizia non hanno mai favorito la visibilità delle donne. È un’occasione da non perdere. E per non perderla bisogna lavorare di più, perché siamo ancora distanti da una ricostruzione mediatica della realtà che possa dirsi democratica, inclusiva, differente e progressista.

I risultati della V edizione del 2015 registravano su scala mondiale una percentuale di donne fonti o newsmaker identica a quella registrata nel 2010. Dopo 15 anni di progresso – dal 17% della prima edizione, nel 1995, al 24% del 2010 – il 2015 ha segnato una battuta d’arresto. Tranne per alcuni Paesi, fra cui l’Italia, che partendo da un risibile 7% di donne nelle news del 1995 nel 2015 è salita al 21%. Una percentuale comunque al di sotto della media mondiale e anche di quella europea (25%). E che non accenna affatto a crescere, anzi. Un monitoraggio realizzato nel marzo 2017 dall’Osservatorio di Pavia, per conto della Rappresentanza in Italia della Commissione europea, nell’ambito del già ricordato progetto 100 donne contro gli stereotipi, registra un calo complessivo della presenza femminile nelle news italiane: scesa dal 21% faticosamente raggiunto nel 2015 al 17,8%. Unico dato confortante è che cresce la quota di donne fra le persone interpellate in qualità di esperte: dal 17,5% al 20%. Ma al passo di 1,5 punti percentuali ogni due anni non possiamo certo porre fine nel sessismo dei/nei media entro il 2020. Ho scritto in svariate occasioni, negli ultimi anni, che la sfida che ci troviamo davanti non è senza ostacoli, occorre che chi fa giornalismo abbia consapevolezza di come si generano notizie gender fair o no e si applichi nella pratica quotidiana del proprio mestiere. Ma poi serve anche che la cultura del Paese cambi, perché nessun/a giornalista può dipingere un Paese che non c’è: è impossibile dare spazio a una premier o a una presidente della Repubblica, se non c’è. E per questo forse non basta più evocare consapevolezza e impegno, serve una strategia elaborata a livello di politiche pubbliche.

 

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