Come nella campagna elettorale del  2008, anche in quella in corso, riduzioni di tasse e di imposte tengono la scena nelle proposte dei partiti. Il dibattito è diventato surreale e a tratti quasi folcloristico, con ipotesi di riduzioni di tasse e di incrementi di spese a dir poco fantasiose in quanto dettate in primis dall’esigenza di parlare alla pancia degli elettori e di recuperare gli indecisi.

La proposta di Berlusconi (e della Lega) è ancora più azzardata di altre analoghe avanzate in passato: la flat tax rate, ossia un’aliquota fissa su tutti i redditi (del 15% nella proposta della Lega e del 23% nella proposta di Forza Italia) accompagnata da alcune deduzioni e detrazioni. Non è la prima volta che si registrano simili proposte, ma se in passato erano state considerate subito irricevibili, questa volta ha avuto più attenzione ed è entrata nel dibattito elettorale in corso.

Anche perché, nel frattempo, la scorsa estate, l’Istituto Bruno Leoni ha avanzato una simile proposta, che si colloca nel solco di un approccio di ispirazione chiaramente liberista: un’aliquota unica del 25% che dovrebbe sostituire tutte le imposte attualmente in vigore in combinazione con un minimo vitale declinato su base territoriale.

Tale ricerca ha avuto il merito di:

i) mettere a dibattito il tema del ridisegno complessivo del nostro sistema tributario che presenta numerose criticità per il suo peso eccessivo e che penalizza i redditi bassi (per effetto ad esempio delle numerose tassazioni sostitutive “flat” e per una selva non ben congegnata di detrazioni);

ii) aprire una discussione sul perimetro complessivo dell’intervento dello Stato nell’economia proponendo un dimagrimento della spesa pubblica sul Pil in alcuni ambiti. Infatti, la riduzione di entrate complessive che si verificherebbe a seguito dell’introduzione della flat tax rate (di un ammontare pari a 95,4 miliardi) verrebbe compensata da un programma di abolizioni di prestazioni assistenziali e da interventi di revisione della spesa.

I filoni argomentativi sui quali si è innescato il dibattito sono stati due. Il primo riguarda la possibilità di una semplificazione del nostro sistema tributario e quindi anche l’eventualità che un sistema più semplice innalzi il livello di fedeltà fiscale dei contribuenti. Il secondo tocca un prevedibile impatto positivo sulla crescita economica attraverso due canali: un aumento dell’offerta di lavoro e la riproposizione di quell’impianto dottrinale detta del trickle down, per cui la riduzione delle tasse per i più ricchi incentiverebbe il risparmio e quindi l’investimento. Più disuguaglianza porterebbe a più crescita e a maggior benessere per tutti.

Sul primo filone argomentativo, la semplificazione è senza dubbio un vantaggio molto importante, ma la complessità del nostro sistema fiscale non deriva dal sistema delle aliquote, bensì dall’affastellamento di norme che il contribuente deve seguire e che si sono accumulate nel tempo per varie ragioni, ma senza un disegno complessivo. Anche gli effetti sull’evasione fiscale sono incerti. L’esperienza che arriva dai Paesi dell’ex blocco sovietico che hanno adottato la flat sono poco indicativi perché l’eventuale aumento del gettito avutosi in alcuni casi potrebbe non dipendere esclusivamente dagli effetti sull’evasione, bensì dall’allargamento della base imponibile. Al momento quindi ci sono poche ricerche empiriche sugli effetti positivi della flat tax rate sull’adempimento del dovere fiscale, mentre ci sono ricerche empiriche che indicano altre determinanti nella scelta di evadere del contribuente.

È soprattutto il secondo filone argomentativo quello che appare meno convincente. Infatti i proponenti della flat sembrano ignorare la lezione della storia di questi ultimi tre decenni sulla relazione tra disuguaglianza e crescita economica suffragata da poderosi lavori di ricerca di importanti studiosi (Atkinson, Piketty, Stiglitz e molti altri) e persino da analisi recenti del Fondo monetario internazionale e dell’Ocse. Diversamente da quello che ipotizzava la teoria del trickle down questi studi hanno evidenziato che in questi ultimi decenni negli Stati Uniti, e non solo, l’alta marea ha fatto salire solo i grandi yacht e la stupefacente crescita dei redditi più alti ha anche coinciso con un rallentamento dell’economia. In questi studi, è stata quindi messa in evidenza:

a) una forte correlazione negativa tra disuguaglianza e crescita;

b) i Paesi più attivi nelle politiche di redistribuzione tendono a crescere più rapidamente.

Infine, se gli effetti economici della flat tax rate sono a questo punto molto dubbi, c’è anche un’altra ragione, che ci arriva dalla Costituzione, per “accantonare” di nuovo la proposta della flat tax rate. È pur vero che la proposta di flat tax rate prevede un sistema di deduzioni e detrazioni che potrebbe garantire un po’ di progressività e quindi apparentemente potrebbe non essere in contrasto con l’art. 53 della Cost.; tuttavia un tributo di questo tipo non rispetta il nostro quadro costituzionale, che in tema di imposizione tributaria detta principi e criteri che sono ben connotati sul piano valoriale, dato che l’art. 53 va interpretato alla luce di un insieme di altre disposizioni costituzionali. Tutti i cittadini concorrono (in base a ciò che la Costituzione qualifica come “capacità contributiva”) alle entrate dello Stato prescindendo da benefici o corrispettivi attesi. Tale dovere costituzionale del concorso di tutti alle spese dello Stato trova anche fondamento nel principio della solidarietà economica espresso dall’art. 2 della Cost., che si traduce anche in un intervento pubblico in funzione dell’eguaglianza che è un altro obiettivo primario della Repubblica sancito dall’art. 3.

In Italia, come ci dicono tutti i dati, negli ultimi anni la diseguaglianza e le condizioni di malessere di molti strati della popolazione sono cresciuti. L’attuale sistema fiscale è sicuramente iniquo e va riformato in direzione di una maggiore progressività e di un minor carico fiscale, ma usare la flat tax rate ha il solo effetto di portare un ulteriore disfacimento di quel patto di cittadinanza e di quel senso di comunità coesa senza i quali una democrazia vive a fatica.

Se decliniamo sul piano economico la disuguaglianza, questa influisce negativamente sulla crescita. Sono diversi i canali attraverso cui questo può avvenire; ne evidenziamo in particolare uno: quando le classi impoverite hanno meno accesso all’istruzione, è più difficile l’incremento del capitale umano di un Paese, la capacità di intraprendere e la mobilità sociale.

 

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