Per espressa dichiarazione di Luigi Di Maio, “Tutti i candidati alle elezioni nelle liste del Movimento 5 Stelle si sono impegnati a pagare una multa di centomila euro nel caso in cui non rispettino le regole del Movimento. E  dopo le elezioni aboliremo la regola costituzionale per cui i parlamentari esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato”. L’imposizione di una sanzione ai parlamentari ad opera del partito nelle cui liste sono stati eletti contrasta frontalmente con l’articolo 67 della Costituzione, secondo cui  “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. E lo conferma proprio l’intenzione di abrogarlo, perché dimostra che, fino a quando ciò non avverrà, l’articolo 67 vale come norma costituzionale immediatamente applicabile e operativa per qualunque partito. Né varrebbe obiettare che la multa sarebbe versata a una società di diritto privato come quella che gestisce la piattaforma Rousseau, perché risulterebbe subito evidente l’intento di aggirare il divieto con uno schermo di comodo. Del resto, già ora non mancano sentenze che, accogliendo ricorsi di persone espulse da M5S o radiate dalle sue liste, hanno chiarito che la pretesa di M5S di considerarsi un “non-partito” e di considerare il proprio statuto come un “non-statuto” è priva di qualunque fondamento giuridico.

Agli albori della Repubblica, non erano mancati casi nei quali il Parlamento aveva respinto dimissioni di parlamentari motivate da dissensi col partito di appartenenza, così come si ritenevano nulle dichiarazioni di dimissioni dirette alla Presidenza della Camera, e fatte sottoscrivere dai partiti al momento dell’accettazione della candidatura, che lasciavano in bianco la data. Ma prassi del genere erano sporadiche e vennero presto meno. Nulla a che vedere con una sfida al divieto di mandato imperativo così generalizzata, e apertamente rivendicata, come quella lanciata da M5S in vista delle prossime elezioni per il rinnovo delle Camere.

Come si spiega tanta avversione? Nelle dichiarazioni ufficiali la si spiega col fatto che il divieto di mandato imperativo legittima i tanti “cambi di casacca” di parlamentari in corso di legislatura, considerati come un tradimento della volontà degli elettori. Ma è appena necessario notare che non sarebbero gli elettori a decidere se e quando le regole interne siano state violate, ma i capi del partito. Inoltre, per penalizzare i cambi di casacca, basterebbe modificare la regola della necessaria appartenenza a un gruppo di ogni membro delle Camere, prevista dai nostri regolamenti parlamentari ma non da quelli di molti altri Paesi democratici e prevedere, come appunto previsto altrove, che il parlamentare non appartenente a un gruppo non può accedere a finanziamenti né alla programmazione dei lavori parlamentari. Questo genere di penalizzazioni ha dimostrato altrove di scoraggiare efficacemente il transfughismo.

Quel che non si può dire è che, per scoraggiarlo, non ci sarebbe altro rimedio che abolire il divieto di mandato imperativo. Perché ciò significherebbe passare dalla padella del transfughismo alla brace di un Parlamento agli ordini di capipartito, riducendo i membri del Parlamento, liberamente eletti dai cittadini italiani, a scherani di una corte medioevale.

In effetti, il divieto di mandato imperativo nasce con la nascita della moderna rappresentanza politica, e ha continuato ovunque a caratterizzare ogni sistema democratico anche dopo che vi si sono affermati i grandi partiti di massa. Esso serve fondamentalmente a garantire il parlamentare dagli abusi dei partiti di appartenenza, sul presupposto che le relazioni fra eletti e partiti sono relazioni di potere, che in quanto tali hanno bisogno di un minimo di regolazione. Stiamo parlando di una regola che da secoli continua ad essere prevista da tutte le Costituzioni democratiche e che viene introdotta ogni volta che una nuova Costituzione democratica viene approvata in qualunque Paese civile.

Poiché nessun altro partito o movimento, in Italia e nel mondo, ha nel proprio programma l’abolizione del divieto di mandato imperativo, e nel frattempo lo sta violando apertamente, i casi sono due. O solo M5S ne ha capito per primo al mondo i misfatti, oppure siamo in presenza di un movimento tecnicamente eversivo e settario, che dietro la patina accattivante della postmodernità via web, come già avviene con le “parlamentarie”, ridurrebbe le elezioni a una farsa modesta.

 

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