La prima cosa che veniva in mente, guardando un programma come Danza con me nella prima serata televisiva di Raiuno, è che il 1 gennaio – per tradizione, talvolta quasi per obbligo – è il giorno delle dichiarazioni di intenti e dei buoni propositi. Non sempre sono destinati a sopravvivere più di qualche settimana, o qualche attimo, ma hanno un’importanza programmatica che va oltre la pur breve durata. E questo vale anche per le due ore abbondanti di spettacolo costruite attorno al ballerino Roberto Bolle che hanno condotto per mano, un passo (e un segmento) alla volta, gli spettatori generalisti nel mondo della danza classica e contemporanea, tra molteplici suggestioni e contaminazioni costanti.

Per inquadrare un’operazione come questa, alcune chiavi di lettura sono immediate, per certi versi automatiche. Da un lato, l’elogio di una televisione che – almeno in alcuni casi – si ricorda di lasciare spazio alle Arti, alla Cultura, all’Eccellenza italiana (tutte, rigorosamente, con l’iniziale maiuscola). Di riempire alcune parti dei suoi palinsesti di contenuti in grado di dare respiro, di insegnare qualcosa, di “elevare” il pubblico, secondo quella missione che il medium aveva ben presente alle sue origini e che a poco a poco, complici le reti commerciali, complice la moltiplicazione dei canali e delle offerte, si è poi scolorita parecchio. Dall’altro, in modo strettamente collegato ma distinto, l’apprezzamento per una Rai che ogni tanto mantiene il suo compito statutario di fare “servizio pubblico”, di prendersi dei rischi per proporre agli spettatori qualcosa di diverso (da quello che commercialmente funziona), qualcosa di importante (secondo canoni e gerarchie più o meno condivise), qualcosa di complesso (lontano da quell’immediata decifrabilità o da quella rassicurazione fidelizzante che aiutano a non cambiare canale). Cultura alta e servizio pubblico, insomma. Non sono però solo queste retoriche a spiegare davvero il senso (e il successo) del programma di Bolle. È fin troppo facile, infatti, cadere in quello che Edmondo Berselli definiva il “ricatto del contenuto”, che porta a ritenere rilevante una trasmissione tv solo perché si occupa di temi e questioni ritenute rilevanti, a prescindere dal modo in cui ciò avviene. Ed è troppo facile considerarci migliori e attribuirci una generosa patente di superiorità per la capacità di distinguere, di scegliere il meglio, di preferire l’alto ed evitare il basso, quando invece – a ben guardare – i nostri consumi televisivi e mediali sono molto più variegati (per fortuna!) di quanto ci piace far apparire.

C’è dell’altro, insomma, nell’esperimento riuscito di Danza con me. E sono ragioni squisitamente televisive, che non hanno bisogno di giustificazioni esterne. Un primo motivo è legato a questioni di ritmo. Non della musica o della danza, ma quello (ugualmente importante) della programmazione. Dove, correggendo il primo esperimento (nell’ottobre 2016) di «La mia danza libera», si è trovato un perfetto equilibrio tra la creazione di un evento eccezionale, raro ed esclusivo anche se disponibile per tutti, e l’efficace inserimento nella quotidianità e nelle abitudini di molti spettatori: la sera del dì di festa, a cui va dato un valore speciale, ma senza la necessità (dopo i veglioni e le piazze) di uscire di casa. Nel gergo dei professionisti, queste settimane dell’anno tv si chiamano «strenne», sono il regalo del piccolo schermo per le feste di Natale: concerti, cartoni animati, film cult (ogni anno gli stessi) e – appunto – le trasmissioni di eccezione, con i ritmi rallentati, le visioni in famiglia e la creazione, sincronizzata, di una comunità che si raccoglie attorno a riti, miti e immaginari – anche culturali – condivisi. Una seconda ragione, che solo apparentemente stona con l’idea di arte e con quella di servizio pubblico, è che il programma di Bolle è una forma purissima, aggiornata e leggermente mascherata, di varietà: quel genere che nasce e si sviluppa assieme al piccolo schermo, che sembra sempre sul punto di morire (o almeno attraversare una crisi profonda), e che a ogni stagione invece rinasce, mutando pelle e volti, per rispondere alla necessità di ritrovarsi insieme a provare qualche emozione con i suoi numeri (dalla risata alla commozione, dalla sorpresa all’ammirazione) e di ricoprire, talvolta, di lustrini la vita di ogni giorno.

Danza con me è allora, soprattutto, un ottimo esempio di tecnica e scrittura del varietà. La tecnica delle singole esibizioni, la scrittura del racconto che li tiene insieme. La tecnica di una regia (di Cristian Biondani), e più in generale di una direzione artistica e creativa (dello stesso Bolle e di Michael Cotten), che proietta immagini sul corpo in movimento del danzatore, strappa e ricompone più volte un green screen, pedina gli ospiti tra le quinte e gli apparati del retroscena, e così facendo, proprio mentre cerca di stupire, di essere nuova, finisce per tornare alla classicissima lezione degli Antonello Falqui e degli Enzo Trapani, attenti a sfruttare le potenzialità del piccolo schermo. O quella di una produzione (firmata Bibi Ballandi) che passa dal passo a due di Bolle con il rifugiato siriano Ahmad Joudeh (sulle note live di Sting) al tapis roulant di Pif e al “balletto tradotto” con Miriam Leone, dalla danza di strada di Lil Buck alla chiacchierata con Tiziano Ferro, dal classico Schiaccianoci al sorprendente inserto filmato con la ripresa, da parte di Bolle e Virginia Raffaele, nel ridotto e sul palco del Teatro alla Scala, dello spot per Kenzo diretto da Spike Jonze (che, a sua volta, richiama il video di Weapon of Choice di Fatboy Slim, anno 2000, sempre di Jonze, protagonista Cristopher Walken). La scrittura passa dal filo conduttore della spalla Marco D’Amore, attore che ha dato il volto a Ciro di Gomorra e qui accompagna con misura, interagisce con Bolle e gli ospiti, lascia il palco alla danza e ai monologhi. E ancora dalla scelta di fondo di togliere tutte le stratificazioni e raccontare il ballo non come un prodotto, qualcosa da osservare e ammirare, ma come un processo, fatto di tentativi ed errori, di fatica e soddisfazioni, di artisti ma anche di tutto quello che, prima durante e dopo uno spettacolo, sta loro attorno. Senza particolari piedistalli e senza (troppi) monumenti, ponendosi sempre sullo stesso piano della curiosità di chi guarda.

La qualità, allora, non sta tanto nell’oggetto (la danza, pur importante), ma nella forma: nell’approccio, nelle idee, nella cura produttiva, nella furbizia distributiva, nell’equilibrio tra ripetizione e innovazione, tra il classico (da aggiornare) e lo sperimentale (che non spaventi). Solo così – e un discorso simile può valere per «Meraviglie», i quattro speciali di Alberto Angela sulle bellezze italiane – la tv si può avvicinare davvero all’arte e alla cultura, e la Rai può svolgere con efficacia la sua missione. Perché non c’è servizio pubblico se poi il pubblico non c’è, preferisce stare altrove. Mentre a passare con Roberto Bolle la prima sera dell’anno sono stati invece quasi 5 milioni di persone, più di un televisore acceso su cinque.

 

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