Incoronazione di Luigi Di Maio come capo politico, con poteri di decisione ultima sulle candidature. Adozione di un nuovo statuto e di un codice etico. Apertura ai non iscritti delle candidature alle prossime politiche. Prefigurazione di accordi di governo – a destra, con la Lega, o a sinistra, con Liberi e uguali – dopo le prossime elezioni. I cambiamenti recenti nel M5S vengono letti dalla stampa più critica – quasi tutta – e persino da qualche attivista della prima ora come un’omologazione ai partiti tradizionali. Eppure, il Movimento cerca ancora di sanzionare le violazioni del vincolo di mandato da parte degli eletti, nonostante la sua incompatibilità con l’articolo 67 della Costituzione.

In realtà, tutti questi aggiustamenti organizzativi sono resi necessari dal cambio di ruolo del Movimento. Non tutti ricordano, infatti, che il M5S uscì dalle elezioni del 2013 come primo partito alla Camera – superato solo da una coalizione Pd-Sel poi subito sciolta – nella sorpresa generale, anche sua. Un movimento antisistema costruito sul web divenne così la principale forza di opposizione della diciassettesima legislatura, senza avere strutture organizzative, personale e cultura politica per esercitare quel ruolo. Fu quella la vera ragione del fallimento delle trattative in streaming con Bersani: il M5S sarebbe uscito cannibalizzato da un accordo con i partiti tradizionali.

Allora il Movimento era davvero un movimento, come crede di essere tuttora: quasi che i partiti fossero sempre stati ciò che sono diventati oggi, ossia gusci vuoti con leader sempre più scoloriti che litigano in televisione e poi si mettono d’accordo (o viceversa). Quando se oggi c’è un partito, ossia una forza politica rigidamente organizzata e un’autentica comunità di militanti, sia pure con tenui legami ideologici, questo è proprio il M5S. La diversità del Movimento, anzi, sta forse proprio qui: gli altri sono generali senza esercito, loro, semmai, un esercito senza generali.

Il M5S di oggi non è più un movimento, non è ancora, né vuole diventarlo, un partito tradizionale, ma è un post-partito: una forza politica organizzata in forme nuove, anche più rigide di quelle dei partiti. A distinguere il M5S dai partiti tradizionali, infatti, sono soprattutto le forme di controllo telematiche degli attivisti sugli eletti e la sorveglianza esercitata sugli uni e sugli altri dai gestori della piattaforma Rousseau, la Casaleggio Associati. Ma l’utopia di Gianroberto Casaleggio – la possibilità che il web sostituisca le forme tradizionali della politica – è rimasta un’utopia.

Certo, i cambiamenti che sarebbero comunque intervenuti sono stati accelerati dall’approvazione del Rosatellum. Pensato contro di loro, per produrre un’alleanza fra Pd e Forza Italia, il nuovo sistema elettorale ha sinora favorito solo la riaggregazione del centrodestra, ha contribuito a isolare il Pd renziano, ma soprattutto ha costretto il M5S a dire cosa farà da grande. Restio a farsi passare il cerino del governo – come se la vittoria alle comunali di Roma fosse stata un complotto contro di lui – il Movimento è stato costretto ad aprirsi, pure troppo. Quindicimila candidature alle Parlamentarie non sono uno scherzo: ma non si potevano presentare nei collegi uninominali dei perfetti sconosciuti.

Oggi il Movimento parla come se fosse destinato a governare, quando il suo ruolo sarà probabilmente ancora quello di maggior forza di opposizione, sia a un governo di centrodestra sia a una piccola coalizione che tagli destra e sinistra. Ruolo importante, che potrà aumentarne ancora le fortune elettorali coalizzando gli scontenti, ma quasi decorativo in un sistema politico sempre più impermeabile alle influenze dal basso, in cui contano poltrone strategiche come quella di ministro o, più ancora, di direttore generale di un ministero. Anche solo per esercitare l’opposizione costruttivamente – ossia ottenendo risultati – il M5S presenta ancora due limiti principali.

Il primo limite consiste nella mancanza di principi stabili, diverso da quel mix di attivismo repubblicano, ecologismo della decrescita e ostilità generalizzata verso l’establishment che è, oggi, la sua ideologia ufficiosa. Sinché si vuole campare sulla rendita di (op)posizione, naturalmente, anche questo va bene; ma quando poi si vota sui diritti civili, ecco che il Movimento fa passare il biotestamento ma non la cittadinanza a 800.000 figli di immigrati. Come se il M5S fosse davvero quel catch-all party, quella macchina del consenso calibrata solo sui sondaggi, che racconta Giuliano da Empoli ne La rabbia e l’algoritmo (Marsilio, 2017).

Il secondo limite, invece, riguarda «trasparenza e partecipazione», principi ispiratori del Movimento ancora ribaditi all’art. 2 punto b) del nuovo statuto. A dicembre il Garante della privacy ha segnalato l’obsolescenza delle piattaforme informatiche del Movimento: altro che Grande Fratello elettronico, il cliché della Casaleggio Associati. I sistemi informatici del M5S somigliano di più a quelli di Trenitalia: con la differenza che mentre questi costringono solo ad attese di mezz’ora per cambiare un biglietto, quelli non garantiscono l’anonimato del voto. Un problema per un post-partito che, secondo l’inattuato articolo 49 della Costituzione, dovrebbe anch’esso «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

 

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