Il modo in cui si sta sviluppando il dibattito politico sulle fake news ci fornisce la migliore spiegazione su quale sia il brodo di coltura in cui allignano: imprecisione terminologica, sovrapposizione di concetti differenti, confusione fra vero e verosimile, prevalenza delle opinioni sui fatti. Tuttavia, il problema è serio e sicuramente interesserà la prossima campagna elettorale, ma ancor più e ancor prima la credibilità dell’informazione italiana nel mondo.

Innanzitutto, chiariamo che le fake news non le ha inventate il web, tuttavia alcune sue caratteristiche ne favoriscono la diffusione. Ma, soprattutto, chiariamo che se si diffondono non è soltanto a causa dell’azione spregiudicata e spesso illegale di taluni, su cui sicuramente, come ricordava Valeria Ottonelli, bisognerà intervenire per assicurare maggiore trasparenza e comminare adeguate sanzioni alle trasgressioni – compiute soprattutto per tornaconto economico, ma anche per fini ideologici e, talvolta, per iconoclastica volontà di prendere in giro il «sistema». Le responsabilità sono anche dei media mainstream e di quanti – pure fra i politici – hanno spesso assecondato alcune logiche mediali che hanno fatto perdere di vista il rapporto con la realtà.

Le notizie tendenziose, le «voci che corrono», le leggende metropolitane sono sempre esistite. Ad alimentarle c’è un processo cognitivo difficilmente eliminabile: la propensione a credere a quanto ci torna più comodo perché rafforza le nostre convinzioni, smorza le nostre incertezze, ci rassicura sulle nostre credenze. Su questo le ricerche forniscono dati e conferme da tanto tempo.

Proprio per questo motivo è stato creato il giornalismo: un sistema di raccolta, selezione, messa in ordine e presentazione dei fatti affidato a professionisti che agiscono secondo principi di legittimazione quali l’obiettività e la completezza informativa, nonché criteri di notiziabilità che permettano di definire con un buon grado d’approssimazione cosa sia di pubblico interesse e, quindi, da condividere all’interno di una specifica comunità.

I media digitali costringono a ridefinire questi processi, sia per l’enorme velocizzazione dei flussi informativi, sia perché – attraverso la cosiddetta disintermediazione – hanno reso molto facile scavalcare i professionisti. Sono diventati sempre più labili e indefiniti i confini di un campo giornalistico allargatosi enormemente e che ha incluso pratiche molto eterogenee, in cui non soltanto i professionisti dell’informazione, ma anche le fonti e ciascun fruitore possono compiere «atti giornalistici».

Velocizzazione, disintermediazione e addensamento delle informazioni rendono incerto lo statuto di molte news in circolazione, favorendo lo sviluppo delle eco chamber, comunità chiuse in cui ci si scambiano informazioni fra simili, rafforzandosi nelle proprie convinzioni e spesso prescindendo da ogni riscontro dei fatti.

Eppure sarebbe logico che proprio in tali circostanze diventasse più rilevante la funzione di mediazione e di certificazione dei giornalisti professionisti. Perché ciò avviene meno che in passato? Perché nel frattempo la loro credibilità è diminuita. Sostanzialmente per due differenti motivi. Innanzitutto, per la crisi di legittimazione di molte istituzioni (si pensi alla politica) attribuibile a un insieme di ragioni – non certo compiutamente analizzabile nell’economia di queste poche righe – ma che potremmo sintetizzare nell’esigenza di individuare nuove forme di riconoscimento, basate sul dialogo e sulla focalizzazione della fiducia, che permettano ai rappresentanti di tali istituzioni di sviluppare una credibilità nel ruolo, visto che quella del ruolo non basta più. In secondo luogo, perché nel corso degli ultimi anni si sono sviluppate alcune pratiche che progressivamente hanno minato la fiducia nella rappresentazione giornalistica della realtà. Ci soffermiamo su quelle che riteniamo più rilevanti.

In primis va analizzata la questione della crescente commercializzazione dell’informazione giornalistica, tardivamente affermatasi nel nostro Paese, ma forse proprio per questo più acriticamente assorbita. Se da un lato ha attenuato la storica dipendenza dell’informazione italiana dalla politica, dall’altro ha prodotto un graduale slittamento verso le soft news, uno stile narrativo orientato all’iperbole e, soprattutto, un ciclo della notizia molto breve, spesso senza un’adeguata contestualizzazione degli eventi. Secondariamente, la progressiva predilezione per le opinioni, a scapito dei fatti, più lenti da far maturare rispetto alle prime. A sua volta questa tendenza all’opinionismo è stata declinata in due differenti modi: schierandosi apertamente, e dunque producendo un giornalismo valutativo in cui i fruitori possono riconoscersi più facilmente, ma che – evidentemente – ci riporta verso le eco chamber di cui si è detto; oppure affidandosi a terzi, grazie a opinionisti, interviste e soprattutto dichiarazioni, in cui la tendenza è raccogliere pareri contrapposti. Si produce ciò che Contreras ha definito efficacemente «oggettivismo»: affiancare due o più versioni dei fatti e, in tal modo, assicurarsi «un’apparenza di verità». Attraverso queste procedure le opinioni e le percezioni si oggettivizzano e i giornalisti scongiurano ogni possibile accusa di parzialità o faziosità.

È sicuramente utile che sia posto all’attenzione dell’opinione pubblica questo scivolamento verso la post-verità alimentata dalle fake news, ma certo non per creare ulteriore confusione, né individuare facili soluzioni che, semplicemente, non esistono. Si può e si deve prevedere una maggiore trasparenza, che ci consenta di sapere dove stiamo di preciso quando siamo in Rete, chi stiamo frequentando e quali sono i suoi fini. Ma i tanti distributori d’informazioni che popolano la Rete – soprattutto i cosiddetti big player – non sono gli unici da richiamare a precise assunzioni di responsabilità. Alla stessa responsabilità dobbiamo esortare i tanti professionisti della comunicazione: dai giornalisti a quanti lavorano per un’efficace visibilità dei propri clienti, nonché questi stessi clienti – che producono eventi e pseudo-eventi – affinché lavorino a una migliore contestualizzazione di ciò che fanno e dicono. Per quanto concerne più specificamente la politica italiana, sarebbe particolarmente utile che i diversi soggetti, piuttosto che scambiarsi reciproche accuse, stipulassero un patto per una campagna meno urlata e dai toni più smorzati. Si badi bene, non soltanto per le ragioni esposte, ma perché – proprio per tali ragioni – farebbero recuperare credibilità ad attori e istituzioni politiche.

Infine, la responsabilità è di ciascuno di noi, diventati ormai gatekeeper di noi stessi, selezionatori e valutatori delle tante informazioni che circolano. È questo il motivo per cui la media education è la vera educazione civica del terzo millennio, da insegnare fin dalla scuola primaria. Diventa essenziale mettere tutti noi in condizione di comprendere i processi attraverso cui verificare consistenza e rilevanza di ogni notizia, attraverso meccanismi che misurino la reputazione della fonte.

 

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