La recente vicenda dei concorsi di diritto tributario ha riportato all’attenzione delle cronache il tema della selezione del personale universitario. Consultando – per altra ragione – la raccolta di scritti di Luigi Einaudi Lo scrittoio del Presidente (Einaudi, 1956), mi sono imbattuto in una nota del 28 gennaio 1952, nella quale l’autore esprimeva approvazione per il progetto di individuare tramite sorteggio almeno una parte dei commissari dei concorsi a cattedra: «L’esigenza più sentita, in questa materia, è quella di ridurre al minimo l’influenza dei gruppi organizzati, di professori e di candidati [e] giova ridurre al minimo il peso degli accordi per candidature» (p. 608).

«Ridurre al minimo» consente di entrare subito in medias res. Il meccanismo della cooptazione, unico sistema di selezione degli studiosi da parte di altri studiosi, praticato in tutto il mondo, porta con sé inevitabilmente un certo livello di confronto, e dunque potenzialmente anche di accordo, all’interno della comunità scientifica che deve operare la cooptazione. Questo meccanismo può patire delle irregolarità – che, ovviamente, è opportuno cercare di «ridurre al minimo» – al limite anche penalmente rilevanti, come quando si tenti di esercitare violenza su un candidato perché non partecipi. Ma non può essere sostituito da un meccanismo che si pretenda privo di valutazioni soggettive.

Si pensi al sistema delle lettere di presentazione, molto utilizzato a livello internazionale, grazie alle quali uno studioso affermato «presenta» un candidato: mi sembra evidente la legittima pressione, almeno psicologica, esercitata da una presentazione «pesante» rispetto a una più «leggera». Tuttavia, nell’approccio pubblico e mediatico al sistema della cooptazione, questo appare quasi sempre disinformato ed è fondato il sospetto che lo sia ad arte, tanto grossolano è in alcuni casi. Si pensi all’affermazione scandalizzata «si sapeva prima chi avrebbe vinto», con tanto di candidato bocciato che deposita dal notaio i nomi dei futuri vincitori. Posto che i concorsi universitari non si basano su una gara nella quale tutti partono eguali perché poi «vinca il migliore», il che si vedrà nel corso della prova stessa, ma sul valore scientifico di materiali pubblicati negli anni precedenti, lo scandalo sarebbe – e in alcuni casi certamente è anche stato – che vincesse chi «non si sapeva» che avrebbe vinto, perché privo dei requisiti necessari.

Ma se le difficoltà della cooptazione e dei necessari giudizi soggettivi sull’opera dei candidati – che le aree disciplinari delle scienze della natura e della tecnica cercano di sostituite con opinabili meccanismi quantitativi – sono un problema «di sempre», come già mostrava Einaudi 65 anni orsono, oggi risultano aggravate da alcune normative che governano l’università italiana.

Penso alla valutazione e al suo utilizzo. In modo assai imperfetto e con un impiego poco trasparente e limitato, la valutazione dell’attività degli universitari è iniziata e comincia a svolgere i suoi effetti, seppure per ora in modi (anche) assai criticabili. Si tratta, tuttavia, di un principio irrinunciabile. I processi di valutazione dovranno proseguire, seppur migliorati nei numerosi punti tuttora difettosi. Gli obiettivi della valutazione sono molteplici e uno emerge, per quanto interessa il reclutamento: assumere mediocri o addirittura somari deve divenire seriamente penalizzante per la struttura che li accoglie.

A questo fine è essenziale che il costo dell’assunzione del meno bravo «interno» debba essere uguale a quello del bravo «esterno», mentre oggi è assai inferiore. Questa perversa conseguenza della autonomia finanziaria delle sedi ha favorito una endogamia accademica del tutto preoccupante: ormai i cinquantenni hanno fatto, in gran numero, tutta la carriera – laurea, dottorato, assegno di ricerca, ricercatore, associato, ordinario – nella stessa sede. E di conseguenza si è rarefatta, fino quasi a scomparire, la mobilità. La convenienza ad assumere in ogni caso gli interni – indipendentemente dal loro valore – che garantiscano comunque i numeri per la didattica, favorisce e sollecita evidentemente anche i «traffici» per la loro abilitazione.

Altra questione antica – e sulla quale di tanto in tanto viene focalizzata l’attenzione mediatica, seppure sempre in un quadro di forte spregio per l’università tutta, identificata in «baronie» per vero ampiamente minoritarie – è quella del rapporto con le attività professionali. Si dice che i danari delle ricche, ricchissime libere professioni collegate ad alcuni settori scientifico-disciplinari siano il motore di molto mercimonio accademico concorsuale, anche se a volte vi restano impigliati, con la conseguente volgare esposizione mediatica, stimatissimi tempopienisti. Se questa è una delle componenti del problema delle irregolarità nei reclutamenti, si trovi il coraggio di tagliare il nodo ambiguo, e in alcuni casi perverso, tra professione e ricerca/insegnamento. Se in qualche area disciplinare si giudica significativo e importante l’apporto didattico dello stimato professionista, gli si attribuiscano incarichi temporanei di insegnamento ma lo si tenga lontano dalla cooptazione delle nuove leve accademiche.

Infine, il problema delle risorse. Un celebre riformatore liberale, Lord William Beveridge, scriveva all’inizio del secolo scorso che «la miseria genera odio». I liberisti degli ultimi quattro decenni sembrano invece ritenere che la miseria generi competizione e miglioramento. Così gli epigoni nostrani hanno applicato questa ricetta all’università, tagliando, ormai da quasi un ventennio, le risorse e le teste, dando un bel contributo, anziché al miglioramento, alla lotta di tutti contro tutti, eccellente brodo di coltura di pratiche oscure, con lo svilimento sia della ricerca sia della didattica, altro ineguagliabile fomento di irresponsabilità.

In tutto questo la classe accademica alla quale appartengo ha certamente pesanti responsabilità, la più grave delle quali tuttavia non credo siano concorsi o idoneità irregolari, bensì quella di non essere stata capace di reggere alla trasformazione da università di élite – quella in vigore fino alla metà degli anni Settanta, con numeri ristretti, sbocchi certi sul mercato del lavoro per gli studenti e selezione del personale guidata in buona misura dall'appartenenza di ceto – a università di massa, con tutti i problemi che non sto qui a elencare e che formano il contenuto di un'ormai ampia bibliografia.

Oggi siamo tutti esposti al pubblico discredito. L’università come istituzione pubblica, innanzitutto, e i molti corretti che vi operano. Tante precedenti clamorose iniziative giudiziarie sono finite in nulla: vedremo cosa sarà di quella in corso, iniziata in modo tanto clamoroso, con gravi misure interdittive e limitatrici della libertà. L’accertamento in un lontano domani delle responsabilità di pochi – se ci sarà – non sanerà comunque i guasti dell’odierno compiaciuto clamore.

 

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