21 marzo 2016: l’aula di Palazzo Madama approva in via definitiva la proposta di legge che istituisce la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione: 143 voti favorevoli, 9 contrari e 69 astenuti. La relazione di accompagnamento recita, testualmente, che l’iniziativa «nasce dall’esigenza di preservare il ricordo del naufragio avvenuto al largo di Lampedusa il 3 ottobre 2013, nel quale morirono 366 migranti».

Quella decisione fu accompagnata dal plauso di molte istituzioni e da tanti soggetti della società civile. L’Unhcr considerò il via libera del Senato «un passo importante per ricordare tutte le vittime dell’immigrazione e una grande opportunità per la scuola italiana per affrontare il tema dell’asilo e dell’integrazione». Save the Children chiese che la cosa si traducesse presto in «accoglienza e gesti concreti […] ancora molto rimane da fare […] il dramma dei migranti continua a perpetrarsi davanti ai nostri occhi, dentro ai confini europei. Non possiamo ignorare le ripetute violazioni dei diritti umani e la chiusura arbitraria delle frontiere, che provocano grande sofferenza e deprivazione per i migranti, e le morti in mare, che rimangono purtroppo una terribile realtà all’ordine del giorno. Solo ponendo fine al susseguirsi di questi tragici eventi con politiche adeguate di accoglienza a livello europeo si coglierebbe davvero il senso più profondo di questa Giornata».

È interessante – o più che altro deprimente – ripensare a tutto questo mentre ci si accinge a ripetere per la seconda volta il rituale del ricordo. Il 3 ottobre cade domani, ma già da qualche giorno la litania della memoria ha avuto inizio. Ma quanto e a cosa serve tutto ciò? Viene da chiederselo. Soprattutto ora, dopo che la linea del governo italiano si è fatta meno incerta e si è orientata nettamente a un’azione concordata con l’altra parte del Mediterraneo per interrompere o almeno limitare al massimo i flussi. Dall’inizio di agosto a oggi, quando tale linea si è fatta esplicita e il ministro Minniti ha dato le indicazioni per la sua messa in atto, la polemica politica non si è mai staccata dai fatti per osservarli con freddezza.

La linea del governo italiano si è fatta meno incerta e si è orientata nettamente a un’azione concordata con l’altra parte del Mediterraneo per interrompere o almeno limitare al massimo i flussi

In molti, su diverse sponde del Parlamento, si sono felicitati con il ministro per la sua azione. Le inchieste giornalistiche che hanno denunciato rapporti poco chiari tra l’Italia e bande di trafficanti libici sono state per lo più ignorate, derubricate a calunnie, nonostante provenissero da testate autorevoli (questo articolo del Post ne ricorda alcune). Il confronto acceso tra governo e Ong non si è ancora sopito del tutto. In tutti questi mesi la questione migratoria è rimasta al centro del dibattito, seppure utilizzata quasi sempre in via strumentale. Resterà, come ormai è evidente a tutti, il tema centrale delle prossime elezioni, anche se queste si terranno a fine legislatura, com’è probabile, la primavera prossima.

Proprio il timore dei suoi effetti sugli umori dell’elettorato ha spinto il governo a rimandare la discussione sulle modifiche alla legge sulla cittadinanza, con l’introduzione del cosiddetto ius soli, prima a dopo l’estate, e successivamente sine die. Da più parti, le nuove norme previste per la concessione della cittadinanza, su cui il Parlamento dovrebbe esprimersi, sono state lette, in chiara malafede, come il cavallo di Troia che permetterebbe a chiunque metta piede in Italia, provenendo dai Paesi dell’emigrazione verso l’Europa, di diventare italiano. Di appropriarsi indebitamente di un diritto che spetta a «noi» ma certo non a «loro». L’etichetta di ius soli si prestava perfettamente al gioco. Si è arrivati a dire, con titoli a piena pagina, che le bambine e i bambini nati dalle donne africane incinte sbarcate sull’italico suolo, alla nascita sarebbero diventati italiane e italiani in maniera automatica e immediata.

Questo per sommi capi è il quadro nel quale è costretto a muoversi chi tenta di motivare le tante ragioni di buon senso, civiltà e sicurezza (per gli italiani in primis), ragioni da elencare non necessariamente in quest’ordine, che dovrebbero spingere il Parlamento ad approvare senza indugi la nuova legge. Tra costoro molti esponenti della maggioranza di governo – ma certo non tutti – e le opposizioni a sinistra del Partito democratico. Fuori dal Parlamento tantissimi altri. A cominciare da papa Bergoglio, considerato ormai – anche all’interno di una parte di Santa Romana Chiesa – più un pericoloso rivoluzionario che un capo spirituale, cui hanno fatto seguito tanti esponenti delle gerarchie ecclesiastiche, incluso il neo presidente della Conferenza episcopale italiana Gualtiero Bassetti, e della società civile. Sono stati lanciati appelli, firmate petizioni, organizzati dibattiti. Gli insegnanti italiani hanno scritto una lettera per spiegare l’assurda, e del resto pericolosa, incongruenza inclusa nel loro obbligo di insegnare cittadinanza e Costituzione, come da curricoli nazionali, ad alunni che non possiedono né cittadinanza né diritto di voto, i due elementi fondamentali che rendono soggetto politico chi fa parte di una comunità.

A niente è servito tutto questo. Ogni giorno che passa, l’approvazione della legge diventa una eventualità sempre meno probabile. Del resto, se non sarà approvata in coda a questa legislatura non sarà approvata nella prossima. Un eventuale nuovo governo a guida Pd difficilmente, al netto di una legge elettorale ancora non nota, potrà disporre di una maggioranza più solida dell’attuale. E forte è la possibilità che possa dover dipendere per la sua sopravvivenza dai voti del centrodestra più di quanto già non accada oggi. Le posizioni del Movimento 5 Stelle, per quanto contraddittorie e liquide - detto in italiano: equivoche – sembrano escludere un sostegno a una legge che darebbe la cittadinanza a 800.000 nuovi italiani. Per non dire su questo aspetto di un governo autonomo nei numeri a guida Lega-Forza Italia-Fratelli d’Italia.

Ma domani è il 3 ottobre. E mentre il Parlamento non riesce neppure a calendarizzare lo ius soli, per volontà del medesimo Parlamento celebreremo per la seconda volta la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione. Come si disse allora, nel definire il testo che la promulgava, una giornata «al fine di conservare e di rinnovare la memoria di quanti hanno perso la vita nel tentativo di emigrare verso il nostro Paese per sfuggire alle guerre, alle persecuzioni e alla miseria» (art. 1); per «sensibilizzare l’opinione pubblica alla solidarietà civile nei confronti dei migranti, al rispetto della dignità umana e del valore della vita di ciascun individuo, all’integrazione e all’accoglienza» (art. 2). Ma anche (art. 3) per «sensibilizzare e formare i giovani sui temi dell’immigrazione e dell’accoglienza».

La Giornata della memoria prende spunto proprio dalla tragedia di Lampedusa. Ma sembra già diventata più che altro un esercizio sterile e ipocrita

Mettiamo a raffronto il testo di quel pronunciamento con ciò che è accaduto nell’ultimo anno. Guardiamo a cosa accade nei lager libici, la documentazione non manca. Scorriamo le cifre dei rapporti con le cifre dei morti e dei dispersi al largo delle nostre coste da quel 3 ottobre 2013. La Giornata della memoria prende spunto proprio dalla tragedia di Lampedusa. Ma sembra già diventata più che altro un esercizio sterile e ipocrita.

Come è stato scritto, «se manteniamo un atteggiamento di paura e rifiuto, ci aspetta un mondo di "campi", ufficialmente provvisori, in realtà perpetui, chiusi da muri che dividono uomini e donne per sempre estranei, e i nostri Paesi saranno abitati da sconosciuti senza diritti, mortificati e scontenti».