Gli organizzatori dell'ultimo convegno della Società europea di filosofia analitica, conclusosi da poco a Monaco di Baviera, segnalano che solo il 25% dei 700 partecipanti erano donne. Il dato conferma una strana anomalia della disciplina, che è stata ampiamente discussa fra gli addetti ai lavori. Pur essendo collocata fra le scienze umane, la filosofia, in Europa come negli Stati Uniti e altri Paesi occidentali, registra percentuali di presenze femminili tipiche delle «Stem sciences», come la fisica, l'ingegneria e la matematica, ossia percentuali molto basse. Negli Stati Uniti, ad esempio, le donne sono solo il 21% dei filosofi accademici, mentre nel resto delle altre discipline umanistiche superano il 40%. In Gran Bretagna, le donne sono il 24% dei filosofi di ruolo. Questi dati sembrano essere trasversali ai diversi sistemi universitari e della ricerca dei Paesi occidentali, e sono confermati anche in Italia, dove, per fare un esempio paradigmatico, dei 136 filosofi teoretici in ruolo (ricercatori, associati, ordinari) solo 32 sono donne (meno di un quarto, dunque), rispetto a una presenza ormai consolidata nelle scienze umane.

I filosofi non sono gli unici accademici a essere in questa situazione e di per sé, a fronte delle enormi sperequazioni che ancora esistono nel nostro Paese e in tutto il mondo occidentale fra donne e uomini, le differenze di carriera accademica in una disciplina tutto sommato marginale (non me ne vogliano i miei colleghi) come la filosofia possono apparire irrilevanti. Tuttavia, l'«anomalia» rappresentata dalla filosofia in questo ambito è un reale rompicapo teorico, che può servire come utile spunto di riflessione sulla nostra percezione delle diseguaglianze di genere.

Infatti, la presenza di percentuali così basse di donne fra i filosofi fa saltare alcuni schemi classici di spiegazione di tali diseguaglianze, primo fra tutti quello secondo cui le donne sarebbero più portate o interessate alle scienze umane. Nella sua versione nobile, questa concezione attribuisce alle donne una maggiore attenzione per gli ambiti della realtà che hanno a che fare con il vivente; da qui la scarsa passione femminile per l'ingegneria o la matematica e la presenza notevole, invece, nelle scienze biologiche, oltre che nella psicologia e altre discipline umanistiche. Ma la filosofia, si direbbe, ha a che fare col vivente e a tutti gli effetti è una scienza umana. Inoltre, a giudicare dalle immatricolazioni ai corsi universitari di filosofia, le donne sono interessate alla disciplina, a differenza di quello che succede ad esempio con le scienze ingegneristiche. È dopo, man mano che si procede coi livelli successivi di istruzione e carriera, che si osserva una curva sistematicamente decrescente di presenza, per culminare in percentuali minime (sotto il 20%) fra i professori ordinari. Come si spiega questa dispersione, dato l'evidente interesse iniziale?

I siti dedicati, come What Is It Like to Be a Woman in Philosophy?, abbondano di aneddoti e racconti sulle angherie subite dalle donne filosofe ad opera dei colleghi maschi, in cui primeggiano forme più o meno pesanti di abuso sessuale e le abituali storie di mobbing post-maternità. Ma a meno di non voler ipotizzare che i filosofi maschi siano speciali e peggiori del resto della specie umana, come si spiega che lo stesso non accade con altre discipline umanistiche?

Si potrebbe forse ipotizzare che questi processi siano casuali. Può succedere, ad esempio, che per ragioni del tutto contingenti per un certo periodo in un dato ambiente si insedi una percentuale molto bassa di donne, e che questo sbilanciamento si autoreplichi nel tempo, proprio per l'assenza di una massa critica femminile adeguata. Ma se fosse casuale, come potrebbe questo fenomeno verificarsi praticamente ovunque, e anche in contesti accademici relativamente isolati fra di loro?

Nella letteratura conservatrice non mancano – non potrebbero mancare – le spiegazioni basate sull'idea che la sparizione delle filosofe man mano che si procede con la carriera sia dovuta semplicemente al fatto (a quanto pare dimostrato) che la distribuzione del Qi, fra le donne, si concentra su valori medi, ma tocca le vette dei valori più alti (e gli abissi di quelli più bassi) più raramente di quanto non accada fra gli uomini. Ma basta dare un rapido sguardo alla popolazione dei filosofi accademici (di nuovo, non me ne vogliano i colleghi) per capire che questa correlazione fra Qi e rendimento nella carriera filosofica non è plausibile.

Una spiegazione accreditata è che in filosofia conti più l'autorevolezza percepita che la reale preparazione e che questo faccia sì che le donne, percepite sistematicamente (anche questo è provato) come meno autorevoli, abbiano meno successo. Sebbene questa sia una spiegazione adottata da molte filosofe che si sono occupate del problema, per amore della disciplina c'è da sperare che non sia vera, perché dimostrerebbe che essenzialmente la filosofia è un'attività più simile al fare a pugni che al pensare.

Così, la gran parte delle spiegazioni che vengono generalmente offerte per le diseguaglianze di genere in ambito accademico e in altri ambiti sociali, nel caso della filosofia si rivela inadeguata, denigratoria o tirata per i capelli, ma questo non impedisce che tutte vengano richiamate con insistenza nel dibattito, dando l'impressione che molti (compresi molti filosofi) quando si tratta di diseguaglianze di genere si adagino semplicemente su schemi di interpretazione consolidati. Il caso della filosofia, anche se relativamente defilato rispetto ad altri fenomeni più eclatanti e rilevanti socialmente, serve così a ricordarci che, a fronte di una letteratura sociologica, filosofica e psicologica ormai copiosa e molto raffinata sulle cause delle diseguaglianze di genere nella nostra società, e di un dibattito pubblico che almeno a tratti sembra avere acquisito consapevolezza della gravità del fenomeno, resta da fare molto lavoro, anche teorico, su questo aspetto così pervasivo e così problematico della nostra organizzazione sociale.

 

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