Come ha sostenuto Henry Kissinger, «per le nazioni, la storia gioca il ruolo che il carattere conferisce agli esseri umani». Kissinger è stato una delle figure più interessanti nel panorama politico della seconda metà del XX secolo. Un ebreo tedesco, la cui famiglia si era rifugiata negli Stati Uniti per sfuggire alla persecuzione nazista, che nella sua patria adottiva è riuscito a diventare professore influente e poi uomo di governo, segretario di Stato sotto due presidenti, Richard Nixon e Gerald Ford. Le controversie infuocate che accompagnano da anni ogni tentativo di valutare il ruolo che Kissinger ha avuto alla guida della politica estera statunitense, in uno dei periodi più drammatici della storia recente americana, fanno spesso passare in secondo piano il contributo da lui dato al dibattito intellettuale sulla politica internazionale. La sua posizione si può caratterizzare come «realista», perché orientata in primo luogo a descrivere la struttura e le dinamiche della società internazionale, nella convinzione che solo una conoscenza adeguata del suo funzionamento consenta ai governanti di valutare le opzioni politiche a disposizione. La sua non è dunque una prospettiva normativa, se non nel senso minimale per cui l’interesse nazionale è una delle norme dell’azione politica. Non necessariamente l’unica, ma quella che non è possibile ignorare senza andare incontro a conseguenze gravi per le sorti della collettività.

L’invito di Kissinger a riconoscere il ruolo della storia nello studio della politica trova un’eco nelle riflessioni di un altro intellettuale ebreo, Isaiah Berlin, anche lui nato sul continente europeo, in Lettonia, ma rifugiatosi con la famiglia nel Regno Unito, per sottrarsi al rischio di essere travolti, in quanto borghesi benestanti, dalla furia della rivoluzione bolscevica. Dopo aver mosso i primi passi nell’ambiente stimolante della «filosofia di Oxford» della fine degli anni Trenta, Berlin ha rivolto il proprio interesse alla storia delle idee, in particolare delle idee politiche, contribuendo in modo decisivo al riconoscimento del valore della disciplina nella cultura britannica.

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 4/17, pp. 533-546, è acquistabile qui]