In bilico fra secoli, epoche, sistemi di pensiero e movimenti di cultura: beati loro, vien da dire, beati quegli artisti che vivendo in tal «bilico» poterono partecipare tanto al nuovo quanto al vecchio, del tempo rappresentando certi grandi snodi fondamentali, trapassi violenti o sfumature impercettibili che fossero. Loro che vissero, propriamente, a cavallo: fra Cinque e Seicento, tra Rinascimento e Barocco, a ridosso del Manierismo, non fiorirono un Tasso, i Carracci, Shakespeare, Caravaggio? E perché, con loro, non dovrebbero contare anche musicisti come il madrigalista Carlo Gesualdo, l’organista Girolamo Frescobaldi, l’onnivoro Claudio Monteverdi?

Monteverdi nacque 450 anni fa, nel 1567, e fu battezzato il 15 maggio. Giusto, giustissimo ricordarlo ora, perché se nei programmi dei corsi universitari è presente, se al mondo della cosiddetta musica antica presenzia da par suo, nelle regolari stagioni liriche e concertistiche latita o manca affatto. Vada per l’opera, dove qualche Incoronazione di Poppea ogni tanto la si può ravvisare, ma altrove, in mezzo a Beethoven e Brahms e compagnia, quando mai si leggono, si ascoltano, si intendono, si gustano un mottetto, un madrigale, un balletto, un salmo, una canzonetta, un «opuscolo» suo? Quasi mai, onde anche Monteverdi rimane «antico» e quindi circoscrivibile a quella cerchia di nostalgici che escludono e sono esclusi. Ma se la musica d’arte non fosse né antica né moderna, ma tutta degna di interesse e di apprezzamento, non sarebbe meglio? In quel caso, in ogni caso Monteverdi sarebbe un nome vincente, perché nonostante la lontananza la sua musica è sempre accessibile, pregevole, ammirevole. Basti, basterebbe porgere orecchio.

Cremonese, lavorò a Mantova nella cappella dei Gonzaga dal 1590 circa al 1613, e poi, oggi si direbbe quasi per chiara fama, nella cappella di S. Marco a Venezia fino al 1643 della morte, là anche un po’ sfruttato ma qua sinceramente onorato. Al suo primo apparire nella milizia musicale, trovò e accettò un’altissima civiltà polifonica, che sapeva spaziare dalle grandiose messe in latino alle simpatiche villanelle in volgare. Ma poco dopo la trentina cominciò a sentire campane diverse: un madrigalismo più espressivo del solito, una sensibilità strumentale ormai polistrumentale, una prassi di «concerto» che incrociava più voci e strumenti, un nuova monodia che penetrava un po’ dovunque, soprattutto una vibrante aspirazione al dramma, alla scena, alla rappresentazione. Lui stava a Mantova, pagato così così, e intanto a Firenze nasceva il teatro d’opera: che fare? Informarsi, allungare l’occhio, riflettere, continuando a comporre alacremente e a pubblicare fortunatamente.

Nel 1600, mentre la famosa «camerata» fiorentina produceva a corte la pionieristica Euridice di Rinuccini e Peri, Monteverdi aveva già dato alle stampe parecchia musica più o meno tradizionale, a tre o quattro o cinque voci (anche un bellissimo madrigale su versi del Tasso, «Ecco mormorar l’onde»). Ma non tardò a fare il balzo elaborando dei madrigali accompagnati da strumenti (cosa mai vista, certo sentita ma per caso) e con alcuni «errori» di scrittura. Scandalo, il nemico Gianmaria Artusi lo accusò gravemente: calmo calmo, lui pubblicò il quinto libro di madrigali e disse che c’eran due maniere di far musica, una antica che ignorava la parola e una moderna, la sua ma non solo la sua, che faceva il contrario, che a parole aspre doveva rispondere con note aspre ovvero accordi dissonanti. A rischio, sì, a sospetto di errore.

Col madrigale era fatta, e gli altri libri, pubblicati fino alla fine, letteralmente sconvolsero ogni buon costume, prosciugando la polifonia fino alla monodia e moltiplicando lo strumentale a piacere: valgano la patetica Lettera amorosa e il bellissimo, catartico, quasi cinematografico Combattimento di Tancredi Clorinda, «opuscolo in stile rappresentativo» allegato ai formidabili Madrigali guerrieri e amorosi. Lo stesso con il regime non profano, liturgico o semplicemente religioso, dal Vespro della Beata Vergine alla Selva morale e spirituale. E il teatro? Vi aveva esordito nel 1607 con L’Orfeo, che non sarà la prima opera composta ma rimane la prima composta alla grande, capace di far reggere all’autore il confronto con Mozart, con Verdi, con Wagner. E dopo tante, troppe partiture perdute (L’Arianna quasi tutta, tranne il celebre e ancor popolare lamento), quasi vi finì sopra, con quella Coronatione di Poppea che, data a Venezia nel carnevale del 1643, precedette di poco il fatale 29 novembre. Mille le novità: tematiche, se l’eros vince sulla virtù e quella buona donna della protagonista fa ripudiare Ottavia imperatrice e svenare Seneca filosofo; letterarie, perché il testo era una storia, addirittura firmata da Tacito, e non un’anonima mitologia; musicali, con quel ruffianissimo duetto finale che è una spina eterna nel fianco della musicologia. E non aveva ragione chi lo chiamava “divino”, questo signore così modesto d’aspetto e maniere? Divino perché nuovo iddio, nuovo creatore, nuovo e grande «bilico» dell’arte occidentale né più né meno di Torquato, Annibale e Lodovico, William, Michelangelo (Merisi, il Caravaggio).