Il recente cambio operato da papa Francesco al vertice della Congregazione della dottrina della fede può essere letto in un’ottica di funzionalità istituzionale. Pochi anni dopo il Concilioil suo lavoro censorio è passato da un’analisi teologica dei testi alla gestione di quella che avrebbe potuto essere l’interpretazione dei testi teologici in esame da parte dei fedeli e, soprattutto, dell’opinione pubblica. Spostando così il peso della propria autorità da un elemento concreto e obiettivo a un futuribile imponderabile. Non più un lavoro sulla res della fede, ma sull’indistinto dell’opinione. In secondo luogo, essa si è pensata sempre più, in varie forme, come luogo di produzione di un’uniformità teologica complessiva anziché proporsi come luogo di verifica e di legame virtuoso dell’inevitabile pluralismo teologico che, fin dai Vangeli, contraddistingue il cristianesimo. Infine, ha di fatto concentrato su di sé il potere complessivo della Curia, facendo delle altre congregazioni e dicasteri vaticani poco più che istanze notarili delle proprie decisioni.

Questa dinamica, che ne ha accresciuto il potere interno, ha però lentamente eroso la sua funzionalità e snaturato la sua forma istituzionale. In questo senso si potrebbe parlare di un’auto-distruzione della Congregazione per la dottrina della fede quale referente istituzionale del governo della Chiesa. E credo che si debba guardare a questo aspetto quando si parla della non riconferma del cardinale Müller quale sua prefetto. Le istituzioni e le burocrazie, si sa, sono animali bastardi, impermeabili al cambiamento – perché anche questa è una delle loro funzioni primarie.

Ma ci sono momenti in cui esse raggiungono una soglia di saturazione e ci si trova davanti a un’alternativa senza via di uscita. O una ristrutturazione che le renda nuovamente funzionali e coerenti al loro mandato, che viene ridefinito dalla forma stessa del governo che le autorizza, o l’inevitabile implosione. Francesco ha concesso quattro anni al cardinale Müller per poter danzare sulla soglia di questo compito. Tempo di verifica e discernimento per valutare se la macchina burocratica e istituzionale fosse quantomeno consapevole delle proprie disfunzioni. Il cardinale Müller ha deciso in tutta libertà come spendere questo tempo, sostanzialmente procedendo nella dinamica di auto-distruzione della Congregazione in atto da decenni.

La sua uscita di scena mette a nudo un problema che riguarda tutta la Chiesa, e non solo una fazione al suo interno. Per questo sono del tutto inappropriati sia i sogghigni di chi ne celebra la partenza, sia i sospetti di cospirazione di coloro che ne piangono il lutto. Stiamo parlando di un nodo nevralgico dell’essere Chiesa del cattolicesimo e della sua fede: qui si perde o vince tutti insieme come comunità. In momenti come questi, nessuno può permettersi il lusso di politiche di parte. Ma pochi sembrano capirlo fino in fondo. L’occasione offerta al cardinale Müller è stata quella di rimettere in calibro una forma di gestione del potere divenuta oramai insostenibile e la possibilità del suo stesso mantenimento. Questione che si ripropone nei medesimi termini a chiunque ne fosse il successore. Ossia, problema di struttura istituzionale ben prima che questione di personale.

Che Francesco abbia scelto il suo successore nel vice-prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, indica la sua preoccupazione per l’architettura istituzionale della Chiesa (che non è mai questione di gusto personale). Questo gli sta a cuore, e non tanto un apparato burocratico servilmente prostrato ai suoi piedi a fare il tifo per lui, per poi saltare prontamente su un’altra barca non appena se ne sarà andato.

L’invenzione di Francesco uscita dal Conclave di quattro anni fa ha mostrato che un’istituzione come la Chiesa cattolica può reagire efficacemente alla questione del potere e della crisi della sua gestione più di quanto possano fare molte delle istituzioni democratiche e secolari. Perché la scelta di Bergoglio come vescovo di Roma mirava esattamente a una riconfigurazione della gestione del potere nella Chiesa e a una ridefinizione dello stile del suo esercizio davanti a tutta la comunità umana.

Poi abbiamo tutti preso paura dello slancio evangelico applicato quotidianamente alla vita della Chiesa cattolica, mostrandoci pavidi e palesando una certa fragilità della fede. L’uomo continua la sua battaglia: lo hanno messo lì per questo e lui, da bravo gesuita, rimane tenacemente attaccato al compito assegnatogli. Il fronteggiamento con la questione del potere che è in atto all’interno della Chiesa cattolica travalica confini e appartenenze: in gioco è il transito delle istituzioni che la modernità ha prodotto nella stagione di nuove forme del potere, che immaginano scenari di un asservimento globale alle loro logiche impalpabili.

Quello che resta di quelle istituzioni è comunque invischiato nel fronteggiamento col potere che Francesco sta esercitando all’interno della Chiesa cattolica. Quando ne va di tutti, bisognerebbe avere l’intelligenza di capire la contingenza e la relatività della propria biografia. Non farlo è stata, ed è ancora, probabilmente la mancanza più grave palesata dal cardinale Müller.