A ben vedere, molte delle più comuni raffigurazioni della Calabria e dei calabresi lasciano il tempo che trovano. Perfino il peperoncino, uno degli emblemi contemporanei della «calabresità», è approdato nei piatti degli abitanti della regione relativamente di recente. Ugualmente distoniche rispetto alle narrazioni mainstream sulla Calabria, ma su un tema maledettamente più serio e tragico, sono le considerazioni sulla ‘ndrangheta. Anzitutto – come mostrano i lavori di Pino Arlacchi, Fortunata Piselli e Rocco Sciarrone – fin dalla loro genesi, i gruppi criminali non sono presenti sull’intero territorio regionale, ma solo in alcune sue aree abbastanza ben definite. Ci sono territori, come la città di Catanzaro, tradizionalmente immuni da presenze mafiose strutturate che però, perfino in termini di criminalità, non se la passano meglio di altre aree della regione. Questa scarna considerazione dovrebbe indurre a interrogarsi, tra le altre cose, su quale sia il peso effettivo della ‘ndrangheta sui destini complessivi della regione. Il panorama criminale non assume, poi, dappertutto la stessa forma: ci sono gruppi potenti sul piano politico, economico e militare e altri che tale potenza non hanno. Ci sono gruppi inseriti nei circuiti internazionali dei traffici di droga, e che dispongono dunque di ingenti capitali da reinvestire nell’economia «legale», magari nel Centro Nord del Paese, e gruppi che a questi traffici sono estranei e faticano a pagare gli avvocati che difendono i loro affiliati. Insomma, una Calabria ricca di diversità e di contraddizioni che tuttavia spariscono nell’immaginario collettivo, dentro e fuori regione.

Questa eterogeneità fa il paio con la grande varietà orografica e di paesaggi, troppo spesso confinata al bel mare e alle spiagge bianche. È senz’altro vero che, con i suoi 780 km di coste, la Calabria copre da sola circa un quinto di tutte quelle della Penisola, ma è altrettanto vero che il 42% del territorio è montuoso e un altro 49% collinare. Luoghi diversi e distanti tra loro, molti dei quali attraversati dall’altro grande emblema, e metafora calzante, della Calabria: l’autostrada Salerno-Reggio Calabria. L’arteria stradale che avrebbe dovuto rompere l’isolamento della regione, che avrebbe dovuto annodare territori fino ad allora slegati tra loro, e che invece rimane l’eterna incompiuta, e che se terreno d’incontro e di scambio è stata, lo è stata semmai sul piano della truffa e della corruzione tra mafiosi e grandi imprese nazionali.

I tratti immutabili della «calabresità», dunque, non esistono. E anche quelli che sono indicati come tali sono impietosamente frantumati dall’irrompere della modernità. Si prenda la famiglia, giudicata l’architrave della cultura calabrese, ritenuta molto diversa da quella individualizzata e «fredda» del Nord del Paese. Basta esplorare i due «estremi» dell’arco della vita per rendersi conto che le cose non stanno propriamente così: da un lato, il tasso di natalità è in continua diminuzione e stabilmente sotto la media nazionale, con nuclei familiari sempre più spesso composti da figli unici; dall’altro, oramai da diversi anni, anche in Calabria spuntano un po’ ovunque le case funerarie, luoghi in cui si «esternalizza» e si rende meno «comunitario» il rito dell’estremo commiato. Una famiglia, dunque, che si restringe e si raffredda, da tempo in marcia verso gli antipodi della sua narrazione pubblica.

Davanti a queste profonde trasformazioni e frammentazioni dei quadri culturali di riferimento si fa dunque fatica a trovare elementi in grado di accomunare davvero la Calabria e i calabresi. Tuttavia, a costo di rasentare la banalità, uno di questi fattori comuni potrebbe individuarsi nella sfiducia generalizzata nei confronti dello Stato, delle sue diverse articolazioni territoriali, di molti corpi intermedi della società (i sindacati, per dirne una, e la magistratura, per dirne un’altra) e in particolar modo, appunto, dei politici locali, regionali e nazionali. Un sentimento che, ça va sans dire, pervade tutto il Paese, ma che qui si presenta in forme acute e oramai croniche, con venature di accesa ostilità mista a rassegnazione. Questi sentimenti sono il frutto di precise (e individuabili) condizioni di contesto di natura sociale, politica ed economica in cui la Calabria è da tempo immersa. A testimoniare l’esistenza di questa miscela di ostilità, sfiducia e rassegnazione si potrebbe tra le altre cose citare l’alternanza tra gli schieramenti politici di centro-destra e di centro-sinistra che, dal 1995 e puntualmente ogni cinque anni, hanno fatto ping pong tra loro, avvicendandosi alla guida della Giunta regionale. In altri sistemi politici questo continuo ricambio sarebbe inteso come un indicatore del buon funzionamento della democrazia. Qui è piuttosto da interpretare come la degna «vendetta» servita in cambio di tutte le speranze mal riposte e le aspettative frustrate. Ciò non impedisce, tuttavia, un’ampia partecipazione nelle competizioni elettorali locali (672 candidati al Consiglio comunale di Catanzaro nel 2017, circa 800 a Reggio Calabria nel 2014; oltre 1.000 – uno ogni 65 abitanti – a Cosenza nel 2016): frotte di candidati che sognano un posto al sole nella politica municipale, vista come trampolino di lancio per le proprie ambizioni politiche, imprenditoriali, professionali o anche soltanto clientelari. La personalizzazione della politica, che da tempo caratterizza le democrazie occidentali, assume in Calabria una veste particolare: essa traspare dai capitali elettorali detenuti dai singoli candidati; capitali che di volta in volta possono agevolmente essere messi a disposizione di liste e partiti sempre più assimilabili a marchi in franchising che gruppi di potere locali riescono a catturare; liste e partiti centrati sulla figura del candidato sindaco, come capita anche altrove, beninteso, ma che qui, com’è successo alle ultime elezioni comunali a Catanzaro, giungono a mettere nel simbolo della lista il nome del candidato al Consiglio comunale che quella lista ha messo in piedi. Questa forma peculiare di personalizzazione della politica non è banalmente clientelare, come solitamente si dice e pigramente si ripete, ma è qualcosa di più e di diverso e prevede che, specie a livello locale, il comportamento di voto sia il calco fedele delle relazioni sociali: un fratello vale più di un cugino, un cugino più del medico curante, il medico curante più di un vicino di casa. Oltre, in genere, vista la densità di candidati, non si va. La personalizzazione del voto, e dunque delle carriere politiche, risalta se si osservano le sorti elettorali del Movimento 5 Stelle, partito non (ancora?) «ben radicato», per usare un eufemismo, sul territorio e animato da una forte carica antipolitica. Nelle arene elettorali in cui non è prevista l’espressione di una preferenza, e dunque il voto ha un orientamento più programmatico, come le elezioni politiche del 2013, i 5S risultano a livello regionale il primo partito col 24,9% dei consensi; quando, invece, ci sono di mezzo le preferenze, come alle comunali e alle regionali, allora la musica cambia e i 5S devono accontentarsi delle briciole (il 5% alle regionali del 2014; il 2,5% alle comunali del 2014 a Reggio Calabria; il 4,4% nel 2016 a Cosenza; il 6% a Catanzaro nel 2017).

Se «dal basso» il tratto comune è (per brevità) il mix di sfiducia e ostilità, quello «dall’alto» può individuarsi, in senso lato, nel deficit di governo e di amministrazione. Ovviamente, i due aspetti sono facce della stessa medaglia, inestricabilmente interconnessi tra loro, le cui dinamiche di causa ed effetto andrebbero minuziosamente indagate (ma ciò richiederebbe una trattazione a parte, magari sulla scorta di una specifica attività di ricerca empirica). Il deficit cui si allude non di rado sconfina nell’illegalità e produce ripetuti commissariamenti da parte del centro del sistema politico. Dal 1991, anno in cui è stata introdotta la normativa sullo scioglimento dei Comuni, raramente è passato un anno senza che in Calabria si registrasse un commissariamento per mafia, compreso il «record» dell’unico capoluogo di provincia, Reggio Calabria. Ma il commissariamento per mafia ha riguardato anche la sanità, con l’azzeramento degli organi di governo della Asl di Locri (2006) e della Asp di Reggio Calabria (2008). E tutta la sanità, principale voce di spesa della regione e luogo privilegiato di affari, intrighi e potere, ormai da sette anni è governata da un commissario. Commissariato è il Porto di Gioia Tauro. Una sorta di commissariamento è toccato anche al principale aeroporto della regione, quello di Lamezia Terme, alla cui guida, dopo la decapitazione per motivi giudiziari dei vertici nominati dai soci pubblici, è stato chiamato un Prefetto, non a caso già direttore della Direzione investigativa antimafia. In senso lato, perfino la Giunta regionale, all’indomani di uno scandalo sui rimborsi elettorali, si «auto-commissaria», con assessori tecnici che prendono il posto dei politici. Infine, ma solo per aggiungere un tocco di colore a questo quadro a tinte fosche, in Calabria perfino una loggia massonica è andata incontro a una sospensione per sospette infiltrazioni della criminalità! Si potrebbe obiettare che i commissariamenti non sono una peculiarità calabrese, visto che essi abbondano non solo in altre aree del Meridione, ma anche nelle regioni del Centro-Nord. In Calabria, però, i commissariamenti sono il sintomo di una patologia (o trasformazione, se si vuole usare un termine più neutro) del funzionamento della democrazia a livello locale. Capita, infatti, che lo stesso Comune sia sciolto per tre volte di seguito, che il sindaco di un’amministrazione locale sciolta per infiltrazioni mafiosa non solo si ricandidi, ma sia anche rieletto o che, appena decaduto dalla carica, sia nominato assessore regionale. Il risultato è che in alcuni comuni della Locride, stretti tra l’incudine della mafia e il martello dell’antimafia (che porta con sé gli scioglimenti), i cittadini, diversamente da quelli delle città più grandi che, come visto, partecipano in massa alla riffa elettorale, cominciano a non avere più intenzione di concorrere alle elezioni: hanno smesso di presentare liste e gli va bene di essere stabilmente governati da un commissario prefettizio. Con buona pace del principio di autogoverno.

Dunque, in Calabria il vuoto politico avanza minaccioso e non si sa se, una volta tanto, su un qualche fronte la Regione faccia da apripista. Un vuoto che è metafora di un territorio e di una società in progressivo svuotamento. Vuote sono le culle, si è detto. Vuote sono le case, visto che il 38,8% delle abitazioni è vuoto (o non occupato da residenti), contro una media nazionale del 22,7%. Case a più piani, progettate e costruite (spesso non del tutto, solo quanto basta, coi ferri che puntano dritti verso il cielo) con un appartamento per ogni figlio, anche se poi quei figli devono andare a cercare fortuna altrove. Un vuoto abitativo per il quale, come scrivono molto significativamente alcuni urbanisti, «in molti paesi dell’interno ormai esistono più case che abitanti». In via di svuotamento è la sanità, che registra una tendenziale diminuzione di strutture, posti letto e prestazioni. Anche qui come nel resto d’Italia, certo, ma con l’effetto di acuire, anziché lenire, la piaga dell’emigrazione sanitaria che colpisce soprattutto i pazienti oncologici. Viaggi della speranza, solo illusoriamente resi meno disperati, per pazienti e parenti, dai collegamenti low cost che dominano il mercato aereo calabrese. Voli che portano in Lombardia, in Emilia-Romagna, in Toscana e sui quali si vedono spesso passeggeri con in mano documenti medici. Le stesse rotte sono battute dagli studenti che scelgono – quelli che possono – di studiare fuori regione. Studenti che fanno registrare percentuali tra le più alte, a livello nazionale, tra coloro che concludono le scuole superiori col massimo dei voti, che però «inciampano» in quei test che (con tutti i limiti del caso, per carità!) consentono forme di comparabilità più stringenti della preparazione, come le prove Invalsi o quelle d’ingresso ai corsi di studio in Medicina. Una grande, ennesima e significativa incongruenza, metafora della Calabria di oggi.

La Calabria è dunque tutto questo, ma è anche molto altro ancora. Malgrado queste difficoltà – o forse proprio per questo – la Calabria pullula infatti di quegli «indispensabili» di cui parla Brecht, «quelli che lottano tutta la vita». Li trovi tra i medici, tra gli insegnanti, tra gli uomini e le donne di Chiesa, tra i giornalisti e i magistrati. A guardar bene, li trovi anche tra gli imprenditori, tra i politici locali e gli avvocati. Mettono in piedi, mettendoci la faccia, associazioni, liste civiche, piccole produzioni agricole, ricorsi al Tar, corsi di laurea, imprese vocate all’export. Impediscono alla Regione di sprofondare, ma fanno fatica a farsi sentire, a tenersi durevolmente insieme e, alla fin fine, a spuntarla. Si tratta di una Calabria resa invisibile da quegli stessi stereotipi di cui la regione è la prima vittima, perché la Calabria fa notizia e va raccontata aderendo ai suoi cliché, proprio come succede con l’Inghilterra e i cappelli della regina.

 

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