Bari è sola. Da sempre. Senza territori da dirigere, né centri imperiali cui obbedire, se non altro perché lontani. È periferia nella periferia. Non ha radici gloriose da onorare né quarti di nobiltà da difendere. Chi è solo deve, innanzitutto, sbrigarsela da sé, guadagnarsi ogni cosa, massimizzando continuamente i benefici attingibili dal contesto e dagli assetti egemoni. Arraffando, all’occorrenza: come nel mito fondativo della «traslazione» (equivalente a un furto) da Mira delle spoglie del Santo (Nicola).

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L’assenza di vincoli originari, d’altro canto, conferisce a Bari una speciale leggerezza, ossia la disponibilità a gettarsi nella sperimentazione dei modelli nuovi che capitano a tiro, dunque, a investire sul futuro. Nella letteratura diffusa, la città è (mal)reputata soprattutto per la prima attitudine, quella al realizzo nel breve («pochi, maledetti e subito»). Della seconda c’è poca traccia o, meglio, essa non viene presa sul serio. Al massimo è considerata come funzionale alla prima: per catalizzare risorse occorre sapersi adeguare rapidamente ai quadri regolativi e ai poteri emergenti. Per questo la città appare, ad un tempo, conservatrice (riluttante a staccarsi dalla greppia usata) e novatrice (desiderosa di aggredire nuove fonti d’abbondanza), disorientando gli analisti.

La riduzione di ogni fenomeno al suo nocciolo utilitario, tuttavia, è espressione di un realismo triviale. Bari va presa invece sul serio: essa interpreta i modelli di regolazione istituzionale, sociale ed economica di ogni tempo con la dedizione e la fedeltà che solo l’assenza di radici auree può garantire. La pianta ortogonale del «murattiano», ad esempio, è la fotografia perfetta dell’Illuminismo: la ragione che squadra lo spazio del nuovo centro città – fondato «di sana pianta» in opposizione al dedalo inestricabile di Bari vecchia – è un inno alla borghesia mercantile, senza gerarchie sociali né piazze che alludano all’agglomerazione comunitaria. Detto altrimenti, a Bari è forse possibile osservare meglio che altrove la natura profonda delle stagioni politico-sociali che hanno attraversato il Paese.

Qui si vede bene l’evoluzione, nella Prima Repubblica, del ruolo della politica nell’economia. La «modernizzazione pilotata dallo Stato» trova a Bari uno dei suoi principali laboratori, spaziando dal sacco edilizio degli anni Cinquanta alla politica dei «poli di sviluppo» nel decennio successivo. La spinta industriale, in ogni caso, si trasforma progressivamente in una cauzione simbolica «rispettabile» dietro la quale celare la realtà di uno sviluppo assistito, «senza autonomia», fondato sulla redistribuzione delle risorse irradiate dal centro. In questo, la città eccelle. Il fulcro del sistema è la DC di Aldo Moro. Clientelismo d’accatto ed esercizi di patronage (tipici, ad esempio, della Napoli dei Gava) vengono sostituiti da un «sistema», una macchina complessa in cui conta l’insieme e non i singoli operatori. In parallelo, l’opposizione comunista, poco incidente sulle dinamiche cittadine, si esprime soprattutto nell’orbita della cultura, guadagnando con l’esperienza dell’école barisienne, sotto il tetto della casa editrice De Donato, un rilievo nazionale.

Il salotto buono dell’industrializzazione meridionale (assistita) diventa negli anni Ottanta la «capitale finanziaria del Mezzogiorno». A Bari, il tessuto di banche e società creditizie è molto fitto, anche se nient’affatto giustificato dalla consistenza dei settori produttivi. L’onda neoliberista trova i baresi pronti a «surfare» verso nuove aspettative di arricchimento individuale, che disdegnano qualsiasi irreggimentazione politica. Gli imprenditori cresciuti all’ombra della DC non si accontentano più della mediazione dei politici di professione, e molti di loro scelgono di scendere in campo direttamente (i Matarrese, i De Gennaro, i Farace sono il presagio del berlusconismo). Il PSI craxiano (gestito localmente da Rino Formica) si mostra ben più spregiudicato nell’interpretazione della nuova fase. Ma con la crisi della Prima Repubblica, è l’intero modello di sviluppo della città a essere messo in ginocchio. La definitiva sanzione simbolica arriva con la «Tangentopoli barese», ossia lo scandalo Cavallari. Posto agli arresti, il Re delle cliniche private rivela il vasto sistema tangentizio sul quale si è fondato fin dal principio il suo impero sanitario.

La mediazione politica comincia a contare sempre meno nell’acquisizione e nell’allocazione delle risorse. I vertici della rampante Cassa di Risparmio locale, politicamente manovrati, finiscono coinvolti in lunghe inchieste giudiziarie. La città si trova a dover ridefinire integralmente la propria identità sociale, politica ed economica. Il fermento civico post-Tangentopoli di metà anni Novanta stenta a contagiare Bari, ancora troppo avvolta nella bambagia della Prima Repubblica. Il primo sindaco eletto direttamente dai baresi, Simeone Di Cagno Abbrescia (di centro-destra), tenta un riposizionamento competitivo della città, mirante a recuperare una sua fantomatica vocazione a farsi snodo di flussi commerciali e culturali nel bacino del Mediterraneo, ma gli slogan ambiziosi («Bari, capitale del Mediterraneo» o «Eurocity», in riferimento esplicito ai modelli Barcellona, Lille e Amburgo) cedono ben presto il posto a politiche di riverniciatura urbana di corto respiro ma molto promettenti sul piano del ritorno elettorale. Un po’ di ossigeno all’economia arriva dalla localizzazione nella sempre più disabitata zona industriale delle filiali di alcune importanti multinazionali (Bosch e Getrag, in primo luogo).

Il vero risveglio «civico» arriva con molto ritardo. Certo, le due grandi scosse risalgono al 1991. Innanzitutto, l’ingresso in porto della motonave «Vlora» e lo sbarco biblico degli albanesi in fuga. Bari, da eterna periferia, si ritrova d’improvviso sotto i fari della storia. In secondo luogo, l’incendio del teatro Petruzzelli, simbolo della borghesia mercantile che si fa cultura. Questo incrocio di eventi, che illumina i baresi e li chiama alla rinascita, porterà, al volgere del millennio, a coltivare nuove chance di costruzione di una coscienza di luogo, facendo emergere le differenti, spesso conflittuali, anime della città e scardinando i tradizionali monopoli informativi legati a filo doppio ai poteri costituiti. Molti sono i protagonisti di questa «primavera»: Città plurale (l’associazione di cittadinanza attiva fondata da alcuni intellettuali, tra i quali Franco Cassano, Gianfranco Viesti, Oscar Iarussi e l’editore Alessandro Laterza), i dorsi locali delle grandi testate nazionali (“Corriere della Sera” e “La Repubblica”), una generazione nuova d’intellettuali, scrittori e artisti in grado di bucare le mura locali con la rivendicazione di un nuovo protagonismo meridionale illuminato dalla stella del «pensiero meridiano», la casa editrice Laterza – da sempre presenza discreta in città, poiché più proiettata sulla scena nazionale –, che apre al dibattito sul futuro della città le porte della sua libreria in centro, nonché un’intera collana a essa specificamente dedicata.

Michele Emiliano (sindaco dal 2004 al 2014) è solo uno dei molti frutti di quest’onda lunga. Il clima nuovo porta al consolidamento in città di un’alleanza inedita tra la borghesia imprenditoriale e professionale (da sempre allineata al quadro governativo nazionale), le forze della cittadinanza attiva e i partiti del centro-sinistra. La nuova compagine si pensa come l’artefice di una palingenesi. A ridosso dei modelli virtuosi di Torino e Firenze, anche Bari punta tutto sul «piano strategico», per ripensare integralmente (in maniera partecipata, ça va sans dire) il modello di sviluppo della città, chiamando a raccolta competenze e professionalità nuove sia autoctone sia internazionali. Ma a posteriori, si può forse affermare che la primavera partecipazionista si chiude già due anni dopo l’insediamento di Emiliano. La dinamite che nell’aprile del 2006 riduce in polvere l’ecomostro di Punta Perotti (la «saracinesca» di Bari) è ad un tempo il simbolico punto di culmine dell’effervescenza civile che ha connotato il passaggio di millennio, nonché l’inizio della sua torsione leaderistica. Ancora una volta, le velleità di ridefinizione integrale dello sviluppo cittadino cedono ben presto il passo a obiettivi più modesti ma a maggiore impatto nell’immediato.

La primavera, in realtà, si trasferisce in regione, col nuovo inquilino della presidenza, Nichi Vendola. Bari ne beneficia «passivamente» ospitando, in quanto capitale amministrativa, le agenzie che sostengono il nuovo investimento in cultura, turismo, innovazione. Ma il fermento è altrove. La continua conflittualità tra il terrestre Emiliano e il celeste Vendola ne costituisce lo schema generale.

La cifra del presente è il disorientamento. Le velleità di fare di Bari la cerniera tra i Balcani e l’Europa nonché uno dei centri propulsori di una immaginifica civiltà mediterranea appaiono tramontate. Più per ragioni esterne, in verità: la chiusura a Est dell’Ue, da un lato, e, dall’altro, i disastri seguiti alle primavere arabe hanno prosciugato l’orizzonte su cui si stagliavano le ambizioni baresi. Le originali elaborazioni culturali d’inizio millennio sono diventate progressivamente articoli di marketing, buoni ad alimentare carriere personali più che pubbliche rinascite. Il Petruzzelli, restituito tutto nuovo alla città, stenta a ritrovare una sua destinazione d’uso e sprofonda nei buchi neri dei bilanci della sventurata Fondazione alla sua testa. Antonio Decaro, il sindaco in carica dal 2014, naviga generosamente a vista, ostentando un attivismo senza meta. Il sogno della costruzione di una via autonoma allo sviluppo, attagliata alle caratteristiche proprie del luogo e della cultura locale, si stempera in una generica modernizzazione trainata dal mito tecnologico digitale (la smart city), che richiede una preliminare «civilizzazione» dei baresi. «Bariperbene» non è solo l’hashtag di un progetto di promozione di comportamenti virtuosi, al fine di tener pulita e in ordine la città, ma diventa il titolo della narrazione di fondo portata avanti dal nuovo governo cittadino. Il disagio sociale, la sofferenza delle periferie, l’inceppamento dei processi di sviluppo economico, tutto viene ripensato a partire dallo spartiacque fondamentale tra cittadini virtuosi e cittadini devianti. La visione di lungo periodo, l’idea generale di sviluppo della città cedono il passo al riempimento delle buche per le strade e alla rimozione delle deiezioni canine.

Deriva tutta «barese»? Se stiamo a quanto detto in apertura, no. Bari riflette fedelmente, come sempre, l’umore del tempo. Il manque di visione che attanaglia il Paese.

 

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