Arrivando a Pisa da Firenze, dalla strada a grandi corsie detta Fi-Pi-Li, il viaggiatore attento non potrà fare a meno di notare, all’ingresso della città, due alte torri di cemento. Anche osservando il capoluogo in una giornata limpida dal vicino promontorio a Nord (il «monte per che i Pisan veder Lucca non ponno», dal canto del conte Ugolino), tra le case basse dei quartieri si possono distinguere con chiarezza due complessi, quello monumentale Duomo-Battistero-Torre Pendente, e quello delle torri di cemento anzidette, non lontane dal nuovo ospedale di Cisanello.

Avvicinandosi, incuriosito, il viaggiatore constaterà che si tratta di un lavoro incompiuto: le due torri sono solo l’anima di cemento di ben più ambiziosi e avveniristici edifici, rimasti interminati a causa delle disavventure finanziarie del proprietario della ditta che le ha costruite, attualmente sotto indagine per associazione a delinquere e per i suoi rapporti con il giro di Matteo Messina Denaro. Ecco, la situazione attuale di Pisa può essere letta anche attraverso la vicenda di questo cantiere, uno dei tanti che hanno trasformato l’imago urbis di uno dei centri più celebri d’Italia.

In effetti, negli ultimi vent'anni, la trasformazione è stata notevole, anche se alcune componenti fondamentali non sono mai venute meno. Ieri come oggi le maggiori ricchezze della città rimangono gli studenti (oltre alla Scuola Normale Superiore e alla Scuola Superiore Sant’Anna, i fiori all’occhiello, l’Ateneo pisano registra circa 50.000 iscritti, per un comune che conta meno di 90.000 residenti) e i turisti, per lo più stranieri, a milioni ogni anno concentrati soprattutto in visite mordi-e-fuggi in Piazza dei Miracoli per l’immancabile foto nella posa di reggere la Torre. Su questi flussi di persone si è consolidata da tempo un’economia che non conosce crisi: gli studenti danno la possibilità ai proprietari di affittare appartamenti a caro prezzo, i turisti nutrono una formidabile azienda diocesana, l’Opera del Duomo, che assicura il 5% del ricavato al culto. Intorno, tutto il correlato indotto di strutture ricettive e servizi.

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Ciò che è successo negli ultimi anni è un generalizzato sforzo di estensione di questo indotto. I vicoli e le piazzette medievali del centro storico sono stati messi a disposizione del leisure della vita studentesca: complice una gestione larga dei decreti Bersani sulle liberalizzazioni per l’apertura di nuovi locali, per l’investitore locale lo studente si è trasformato da un semplice «essere che dorme» (da cui si potevano ricavare i soldi legati all’affitto e alle spese di base), a un «essere che consuma alcolici e divertimenti», con una moltiplicazione delle occasioni di profitto. Ciò ha portato alla creazione di una rumorosa vita notturna del centro (che richiama occasionalmente popolazione giovanile da tutta la Toscana e oltre) e all’innalzamento dei fitti immobiliari: entrambi fenomeni che hanno contribuito alla scomparsa delle botteghe e alla fuga di residenti storici e famiglie.

Dall’altra parte non sono mancati i tentativi di allargare le occasioni per i turisti dalla sola Piazza del Duomo (che ha visto raddoppiare le presenze negli ultimi dieci anni) all’intera città, tentativi non pienamente riusciti, per quanto favoriti dall’aumento dei flussi legati alle vacanze in Italia e dal vero e proprio boom dell’aeroporto pisano. Il «Galileo Galilei», attaccato alla città e con una comoda area di atterraggio, gode in effetti di una posizione estremamente felice, di cui si sono accorte le compagnie aeree low cost, in primis Ryanair. Grazie a un’accorta gestione da parte della società aeroportuale (allora a maggioranza pubblica), il traffico aereo è aumentato dal milione di passeggeri del 1996 ai quasi 5 milioni del 2016.

Pisa può quindi essere letta come un crocevia, uno snodo che ha assistito a uno straordinario (per quanto voluto) aumento dei flussi di persone che lo attraversano. Si aggiunga, per rafforzare questa visione, l’esistenza di un polo ospedaliero con cliniche d’eccellenza che attirano degenti – e relativi parenti – da tutta Italia. Ciò ha generato un forte bisogno di gestire la logistica – intesa sia come input, servizi necessari, che come output, problemi conseguenti – legata al transito di popolazione occasionale, in particolare quella turistica e studentesca. A questa richiesta ha provato a rispondere un ceto politico dirigente che negli ultimi vent’anni si è fortemente identificato con il partito ex comunista – prima Pds, poi Ds, ora Pd. La strategia perseguita è stata quella di favorire interventi di costruzione o ristrutturazione edilizia che favorissero la circolazione di flussi di persone, ormai considerati come il core business della città.

La riqualificazione del vicino porto di Marina di Pisa, la battaglia per far sbarcare in città il secondo megastore di Ikea della Toscana, la grande opera da 72 milioni di euro del People Mover (una navetta che collega l’aeroporto con la stazione centrale, distanti appena un chilometro), una nuova stazione degli autobus in pieno centro, il restauro delle mura medievali e l’invenzione di un camminamento per turisti sopra uno spezzone di queste: sono alcune delle grandi partite di trasformazione urbana condotte negli ultimi anni dall’amministrazione locale, spesso in project financing, con una determinazione innegabile. Altrettanto credito è stato dato a imprenditori privati per sviluppare – a lato dell’intervento pubblico – delle proprie occasioni di guadagno: tra i vari casi, appunto, le due torri di cemento che hanno attirato la curiosità del nostro viaggiatore.

Gli amministratori cittadini hanno insomma dimostrato di possedere alcuni importanti pregi: la capacità di intercettare fondi pubblici e proporre grandi operazioni immobiliari, insieme a una notevole abilità tecnica nel tenere in attivo i bilanci comunali. Ma le vicende di molte operazioni, ancora in bilico tra i trionfalismi degli intenti e la polvere del loro possibile insuccesso, inducono a non poche cautele sulla leggerezza con cui sono state portate avanti. Queste scelte hanno mostrato soprattutto un grande limite: la «febbre» dei cantieri è stata indotta dall’alto, è calata sulla città senza alcun reale processo di ascolto dei bisogni sociali e di dialogo con le sue componenti. Le periferie ad esempio, luoghi di economie locali minori e di un rapporto marginale con questi flussi, accusano una grave mancanza di attenzione. È il sintomo, questo, di un problema più ampio, che riguarda una visione complessiva di Pisa.

Paradossalmente la città delle tre università registra oggi una evidente carenza culturale, sia a livello di cura del proprio patrimonio storico-artistico sia a livello di canali codificati di espressione di una sofferenza sociale diffusa, presente qui come altrove in questa fase di crisi e trionfo del precariato. La chiusura, temporanea o definitiva, di importanti biblioteche cittadine, l’incapacità di valorizzare le strutture museali diffuse, la mancanza di un programma di proposte culturali all’altezza della città si accompagna a uno sbandamento nell’identità del ceto politico locale, un tempo chiaramente schierato nel campo laico e progressista. La nomina di un aderente al movimento «Sentinelle in piedi» come presidente del principale teatro cittadino (a cui è destinato quasi tutto il bilancio comunale per la cultura) o le politiche di sgombero sistematico attuate contro i campi Rom o gli spazi sociali sono i segnali di un cambiamento importante – per quanto non ammesso – nei valori politici di riferimento.

Pisa ha conosciuto una deindustrializzazione precoce: nel corso degli anni Sessanta le maggiori fabbriche presenti nel tessuto urbano sono state smantellate, per dare pieno sviluppo al settore terziario. Ciò ha implicato una profonda rielaborazione dell’immagine di quella che era stata Una città proletaria, come intitolava un bel libro di Athos Bigongiali sulla Pisa perduta (Sellerio, 1989). Oggi la scelta di puntare su un’economia dei flussi non è stata accompagnata da un corrispondente impegno a livello culturale, di rappresentazione e dialogo. Eppure questi flussi producono una ricchezza che non è solo quella dei meri ricavi monetari. Per rendersene conto il nostro viaggiatore, un volta abbandonati al loro destino i due immensi totem di cemento, può lasciare la macchina e inoltrarsi a piedi per il centro della città, dalle dimensioni così raccolte da essere tutto racchiuso in una passeggiata di una mezza giornata.

Gli studenti che frequentano Pisa per pochi anni, o gli ex studenti che hanno scelto di viverci per sempre, così come i dipendenti pubblici che mandano avanti le università e gli ospedali, ma anche gli stranieri che a vario titolo – da turisti o da lavoratori – portano in città frammenti di mondi lontani, riescono a dare un volto cosmopolita e dinamico a questo piccolo borgo adagiato sulle due sponde dell’Arno. E a produrre una ricchezza immateriale fatta di incontri e presenze, spesso anche a formalizzarsi in associazioni e gruppi culturali. E il tessuto popolare autoctono, spesso dimenticato specie se residente nei quartieri periferici, ritorna protagonista della vita cittadina nelle grandi cerimonie di massa, le manifestazioni storiche o il calcio, con una nutrita e orgogliosa tifoseria che rimpiange ancora i tempi della follia di Romeo Anconetani ed esprime un genius loci fatto di caparbietà e ironia. Infine, c’è una città fuori dalla città: una grande provincia in cui rimangono importanti poli produttivi, un settore meccanico che ancora regge, un distretto conciario che si sta ricollocando nel complesso mondo della moda, un comparto vinicolo che sta promuovendo la bellissima e poco conosciuta zona delle colline pisane, a Sud.

Insomma, un articolato insieme di sistemi sociali, che il viaggiatore senza fretta può riuscire a cogliere e apprezzare, ma che dovrebbe essere anche compito della politica riuscire ad ascoltare e valorizzare.

 

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