Il primo ristorante cinese di Milano risale al 1962 ed è il tuttora attivo Lon Fon, a pochi passi dalla Stazione centrale. Traggo la notizia da un grazioso libretto autocelebrativo che utilizza come introduzione un articolo che Dino Buzzati scrisse per l’occasione per il «Corriere dell’Informazione» (il pomeridiano del «Corriere della Sera»). Buzzati riassume così la presenza cinese a Milano:

«Il primo flusso di immigrati si ebbe dopo l’altra guerra e molti ricordano ancora il cinesino che girava offrendo per “dieci lire” cravatte e collane di perle finte. Ma con l’andar degli anni il cinesino ambulante scomparve. Insidiatosi, chissà perché, in via Canonica e strade limitrofe, questo gruppo di occhi a mandorla, onesto, quieto e laborioso riuscì a farsi le ossa […] poi piantarono laboratori, quindi delle vere fabbriche di borsette, valigie e pelletterie e dandoci dentro a lavorare riuscirono, almeno alcuni, a mettere insieme una discreta sostanza». Buzzati prosegue parlando di una comunità «di circa trecento persone».

Anche se resta, al di là delle leggende, difficile contarli, oggi sono registrati circa 27.000 cittadini cinesi in città. Nel numero non sono però compresi i cinesi milanesi da tre generazioni e che si sono aggregati attorno a via Paolo Sarpi (una strada che incrocia via Canonica), la Chinatown milanese, luogo identitario di una presenza che si è diffusa poi in molte altre zone ed è facilmente avvertibile per le strade della città perché tanti sono gli esercizi commerciali di proprietà cinese (ristoranti, bar, lavasecco, negozi di chincaglieria, riparazioni di tecnologia domestica ecc.).

Dal 2000 vivo sul limitare di quella zona e ho assistito ai cambiamenti che l’hanno interessata. Proprio sotto casa mia, all’inizio di via Paolo Sarpi, l’associazione dei commercianti cinesi qualche anno fa voleva issare un arco di trionfo sul modello della Soho londinese e di altre Chinatown in giro per il mondo. Allora ero «esperto» (questa la qualifica) del Consiglio di Zona 1 e sconsigliai che venisse realizzato. Mi pareva che marcasse troppo l’identità di un quartiere che trova nella mescolanza la sua originalità. Quartiere che è molto cambiato dai primi anni del XXI secolo, complice soprattutto la pedonalizzazione di via Paolo Sarpi, il fiorire del commercio all’ingrosso e al minuto cinese, la scomparsa di molti piccoli negozi di proprietà di italiani a cui l’offerta in cash (si parlava di 250 milioni, poi diventati 250.000 euro) da parte di commercianti orientali sembrava sufficiente per immaginare una nuova vita. Alcuni però hanno resistito: la ferramenta, la torrefazione, la macelleria, il panettiere (che si è trasformato in un luogo per uno spuntino del mezzogiorno, molto apprezzato dai viados brasiliani che lavorano attorno al vicino Cimitero Monumentale) e qualcun altro.

Punto di riferimento della via sono le Cantine Isola, gestite dalla famiglia sarda Sarais. Il funerale, lo scorso anno, del capostipite nella chiesa di via Giusti fu un momento in cui il quartiere si è sentito comunità. E proprio la brutta chiesona costruita negli anni Sessanta e la scuola elementare comunale lì accanto, insieme alla piazzetta ricavata da un parcheggio sotteraneo sul retro, sono un altro punto di coagulo del quartiere. La Chiesa della Santissima Trinità ospita un oratorio, è sede del Gas (il Gruppo di acquisto solidale), organizza i corsi di italiani per stranieri, la lettura della Bibbia il giovedì, la messa per la comunità cinese la domenica mattina. È insomma un luogo laico e religioso al tempo stesso, dove don Mario celebra battesimi e funerali, adattando ai tempi nostri la politica di Giovan Battista Montini, arcivescovo di Milano ai tempi del boom economico, che riassunta in uno slogan potrebbe suonare così: «Costruire nuove chiese per i nuovi milanesi».

È difficile periodizzare una storia recente, ma sceglierei due date: il 2007, quando la comunità cinese scese in piazza per protestare per le limitazioni del carico/scarico della merce, giudicate vessatorie, specie per il commercio all’ingrosso (qui arrivano grossisti da tutto il Settentrione). Ci furono tafferugli con l’esibizione da parte dei più giovani della bandiera rossa della madre patria. Come dire: «Ricordatevi che siamo cittadini di un grande Paese». La cosa si risolse con concessioni da parte del Comune, nonostante i mugugni delle due associazioni dei cittadini italiani del quartiere, anche perché la comunità cinese ha un bacino di voti indipendenti da retaggi ideologici. Da allora si sono registrati regolamenti di conti, anche molto cruenti, tra le gang cinesi della zona, ma scontri contro le forze dell’ordine sono rimasti un fatto isolato.

La seconda data è il 2011, quando cominciò la pedonalizzazione di Paolo Sarpi che, a quel punto, faceva asse da un lato con la zona borghese e residenziale di piazza Sempione e del parco adiacente; dall’altro, con i grattacieli della nuova Milano che stava sorgendo attorno a piazza Gae Aulenti. Intanto stava cominciando l’edificazione della Fondazione Feltrinelli, inaugurata a fine 2016, opera dei celebri architetti svizzeri Herzog e De Meuron che, nelle forme, ricorda la confezione del Toblerone che ha forse segnato l’infanzia dei due architetti. La Fondazione, nonostante i buoni propositi, deve ancora instaurare un rapporto col quartiere e con la città. Il Toblerone è diviso in due e nell’altra metà ha sede Microsoft Italia (con tanto di logo attaccato alle vetrate) con la sua arietta cool californiana. Chi da subito ha approfittato del nuovo viavai è Giulio, il titolare di Mini Gourmet, un chiosco che ha aperto a fianco alla Fondazione e che propone, insieme ai fritti, pesce crudo, spaghetti ai ricci di mare (un’offerta equivalente a quella di chi, all’epoca del boom economico, comprava un’utilitaria ma la voleva superaccessoriata). Più avanti, verso il Cimitero Monumentale, ha sede Ceresio 7, locale con una magnifica terrazza dove gli eredi (i figli?) della «Milano da bere» si danno appuntamento. Ci sono stato una sola volta per discutere con la proprietà la possibilità di utilizzare la grande corte che oggi è sgombra. Stavamo combattendo, con il gruppo «Area Ex-Enel», una battaglia contro la costruzione di uno sgraziato albergo di nove piani e di qualche casa da edilizia convenzionata. Battaglia quasi persa tra le contumelie dell’allora assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris.

I risultati son lì da vedere: l’edilizia convenzionata è di rara bruttezza, l’albergo, decapitato di due piani, è stato affidato al maquillage di Stefano Boeri che l’ha spruzzato di verde. Peccato perché il quartiere, seppur a rischio di gentrificazione (anche da parte di una minoranza cinese che per ora ostenta soprattutto macchinoni neri e si infila in ristoranti sempre più lussuosi), sta diventando sempre più attraente. Un giardino abbandonato, intitolato alla memoria di Lea Garofalo, rifiorisce grazie all’iniziativa di privati cittadini e alla volontà del Convento di Sant’Antonio da Padova di via Farini, che il sabato offre il pranzo ai tanti homeless che sono il controcanto della Milano che cresce di questi anni. Da poco più di un anno ha aperto un locale, Otto, frutto di un’alleanza milanese-napoletana, che ha avuto un immediato successo presso i trentenni, e non solo, spesso "lavoratori della conoscenza" che, con la formula del co-working, hanno occupato tanti appartamenti del quartiere. È qui che ho appreso che nel mese di maggio, in un cortile di una casa di via Sarpi, è tradizione recitare il rosario da parte di un gruppo in cui si mescolano milanesi, campani e cinesi residenti da più generazioni, che poi banchettano condividendo le specialità delle rispettive provenienze. Miracolo a Milano?

 

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