“Believe in yourselves. Believe in your future. And believe, once more, in America”. Sono le parole conclusive del discorso di Trump dello scorso febbraio, tenuto davanti al Congresso riunito e che campeggiano nella home page del sito della Casa Bianca. Ma, al termine del suo primo viaggio ufficiale che lo ha visto, in nove giorni, visitare Arabia Saudita, Israele, Belgio e Italia, quello che si potrebbe pensare è che in realtà è prima di tutto l’America a non credere più in se stessa. Vale a dire, a non avere più fiducia nella capacità di proiettare un immaginario in grado di affascinare, di sedurre i cuori e le menti, di alimentare quell’insieme di speranze e desideri su cui si è costruito il “secolo americano” e la pervasiva affermazione del soft-power statunitense. Che questa capacità di proiezione si fosse offuscata, per la verità, lo si era percepito da tempo, tanto da aver nutrito un dibattito pubblico e storiografico sulla “fine” del secolo americano o, quanto meno, sul suo presunto declino. Tuttavia, tale dibattito si dipanava all’interno di un gioco dialettico fra Stati Uniti e altri contesti di riferimento – l’Europa, in primis, la Russia, la Cina o i nuovi Paesi emergenti – in cui però gli Stati Uniti tentavano di riproporre, aggiornandolo, quell’eccezionalismo che avrebbe dovuto farne un modello di riferimento. In fondo, anche l’America all’insegna della “diversity” di Barack Obama non sfuggiva alla tentazione di riaffermare il “lungo” secolo americano rintuzzando le opinioni di chi parlava di declino.

Non sembra sia quella l’immagine offerta da Trump nel corso del suo viaggio,   tutti per capirne umori e obiettivi. L’arrogante e altrettanto eccezionalista affermazione dell’America First è apparsa quasi come il grido di chi vuole imporre ma non proporre, di chi ritiene che ciò che conta è vincere più che convincere, con la consapevolezza che l’America deve ritornare “grande” e “lussuosa”, ma non necessariamente deve essere “bella” e piacere a tutti. L’America non propone più valori universali, ma solo affari su cui si può discutere.

D’altronde Trump lo ha detto chiaramente nel suo discorso a Riyad, che alcuni hanno paragonato, per contrasto, a quello di Obama al Cairo nel 2009: “Non siamo qui per insegnare, per dire agli altri popoli come vivere, cosa fare o come devono essere. Siamo qui per offrire una partnership che sia in grado di costruire un futuro migliore per tutti”. E se per fare questo si deve anche lodare l’impegno dell’Arabia saudita per il suo impegno a favorire l’empowerment delle donne [sic!], va bene. È questo il “realismo americano” che molti osservatori statunitensi intendono proporre per rimpiazzare quelle che ritengono essere le macerie dell’internazionalismo liberale? Certo, nessuno rimpiange un’ideologia che ha prodotto come non mai un divario fra una retorica impregnata di parole come libertà, democrazia, diritti e una realtà che ha visto gli Stati Uniti imbarcarsi in un numero spropositato di guerre e interventi militari e sostenere, secondo una celebre frase di Jimmy Carter, qualsiasi dittatore che poteva essere utilizzato in funzione geopolitica. Quello che però propone Trump non è una visione realista, ma l’incapacità di offrire una visione che abbia un respiro lungo, con la costante attenzione a quella parte dell’elettorato americano che, votandolo, ha riproposto una visione cospirativa della storia. La visione che vuole l’America innocente vittima degli istinti predatori dell’Europa matrigna e malvagia, o di Paesi arretrati e familisti, vicina forse a quelle nazioni con le quali, invece, si condivide lo stesso sentimento di sentirsi fortezza assediata.

Ne è prova il doppio registro che Trump ha usato in Arabia Saudita e Israele da un lato e a Bruxelles, in occasione dell’incontro Nato e a Taormina per l’annuale riunione del G7, dall’altro. In Arabia Saudita e in Israele, dove è stato accolto con deferenza e onori negati ad Obama, si è avuta la percezione della messa in atto di rituali che hanno soddisfatto la sua narcisistica personalità. Sorvegliato a vista da coloro che nel suo entourage hanno pianificato la visita – il genero Jared Kushner, il consigliere per la sicurezza nazionale il generale McMaster e la sua vice, esperta di questioni mediorientali, Dina Powell, vice consigliere per la sicurezza nazionale -, i quali sono riusciti anche a convincerlo di limitare i suoi tweet, Trump è sembrato assumere un tono quasi presidenziale, senza incorrere in gaffes particolarmente gravi, tanto da far giudicare quella parte del viaggio un successo. Un contributo lo hanno dato anche altri fattori, come la sua nota predilezione per i colloqui one-to-one e, per quel che riguarda l’Arabia Saudita, un certo tipo di visione patrimoniale e familista del potere.

Nei suoi incontri di Bruxelles e Taormina, invece, il Trump-Dr. Jeckyll si è trasformato nel Trump-Mr. Hyde. Lo stesso linguaggio del corpo, oltre alla presa di distanza quasi fisica nei riguardi degli altri leader, lanciava un messaggio di antagonismo, se non di aperta ostilità. L’opposizione alle scelte economiche della Germania, l’accusa agli alleati di non farsi sufficientemente carico della sicurezza collettiva – eco della nota opposizione tra l’America-Marte e l’Europa-Venere –, l’opposizione all’accordo sul clima, sono tutte questioni che, al di là dei dettagli più specificamente politici e strategici, rimandano a una antica, perdurante, diffidenza nei confronti soprattutto dei Paesi europei che non può non richiamare quello che Tiziano Bonazzi ha definito come il rapporto labirintico tra America ed Europa. Se in Arabia Saudita, Trump ha affermato di non voler “insegnare”, non così si è posto nei confronti di alleati e degli esponenti del G7 (altri sono invece i termini alla base dell’incontro con il papa). È ovvio che il Trump arrogante e deciso ad affermare gli interessi dei consumatori americani – nei confronti della Germania (guarda caso soprattutto per quel che riguarda l’eccesso di importazione di auto tedesche), o nei riguardi di Paesi che a suo avviso non contribuiscono in modo “fair” alla sicurezza militare – sta parlando soprattutto al suo elettorato sedotto dalle sirene populiste e storicamente diffidente nei riguardi dell’Europa. Alcuni osservatori hanno notato come l’opinione pubblica europea, da Reagan in avanti, ha sempre guardato ai presidenti americani con un misto di diffidenza, ammirazione, sufficienza a seconda dei periodi e dei contesti. O meglio, si può rintracciare quello che viene definito un complesso di inferiorità-superiorità che l’elezione di Trump ha finito per accentuare perché incarna quei valori che una parte dell’opinione pubblica europea avversa. Dall’altra parte, Trump veicola quella diffidenza profonda dell’elettorato della Middle America bianca che vede nell’Europa la terra della corruzione e del papismo, dello statalismo e della burocrazia che uccide la libertà individuale, di un Welfare che solletica la pigrizia di chi non crede nel solido principio del duro lavoro (secondo il Pew Research Center, fra i repubblicani, in una proporzione di 3 a 1, vi è la convinzione che la ricchezza sia il frutto del duro lavoro). Insomma, una visione che vede l’America-formica contrapposta all’Europa-cicala, impregnata di stereotipi e pregiudizi le cui radici affondano nella profondità di una storia che non sembra ancora essere risolta. Con una differenza, rispetto al passato: l’insofferenza, la vera e propria scortesia di Trump più che sintomo dell’arroganza imperiale americana appaiono reazioni di un’America che si irrigidisce non perché non ha più bisogno del mondo, ma per la ragione contraria, per la crescente consapevolezza che America First non può essere America Alone. Per il loro ruolo e la loro storia, gli Stati Uniti non possono prescindere dall’avere una concezione globale che, tuttavia, non può che basarsi sul riconoscimento della realtà di un’interdipendenza, difficilmente liquidabile come intralcio. L’interdipendenza richiede visione, capacità di ascolto e riconoscimento dell’altro, ma Donald Trump – “the Ugly American”, il buon americano – non lo vuole ancora capire.