Ci sono i fatti, e poi c’è la percezione dei fatti. E nelle questioni relative alla sicurezza a contare sembra essere la percezione dei fatti. Prendiamo il caso del cosiddetto «ampliamento» della legittima difesa. Quali sono i fatti?

Nel 2015, anno cui risalgono le statistiche più recenti, sono stati rimandati a giudizio per eccesso di legittima difesa 136 cittadini, poi prosciolti nel 90% dei casi. Dov’è l’allarme sociale? Dov’è il vuoto legislativo? Eppure, la Camera ha legiferato, e con clamore. Leghisti e affini avrebbero voluto sancire la «presunzione assoluta di innocenza» per gli sparatori casalinghi. Insomma, avrebbero voluto sancire un sacrosanto diritto all’eccesso di legittima difesa (un caso evidente di analfabetismo giuridico). Sentendosi scavalcata a destra, la maggioranza ha tergiversato e ha prodotto un testo tragicomico. Ma ci siamo abituati (meno male che il Senato c’è, ha detto Pietro Grasso). Ci stupisce invece che un ramo del Parlamento abbia scelto di perder tempo discutendo una riforma inutile, almeno quanto ai fatti.

Ma lasciamo i fatti, e torniamo alla loro percezione. Ed è qui che la troviamo, l’utilità delle nuove norme sulla legittima difesa. È la stessa utilità che da ben più di vent’anni guida le scelte politiche. È la stessa utilità che dall’inizio degli anni Novanta si è fatta padrona del nostro immaginario, e che ha segnato e segna le fortune di partiti e movimenti, in primo luogo dei loro leader. Iniziata con la Lega, e con il suo uso programmatico della paura a fini di consenso, la politica della percezione è presto diventata prassi dominante, non solo a destra. È la paura, è la sua percezione sociale costruita dalla macchina mediatica della paura, che decide della politica (di quel poco che la finanza e l’economia lasciano alla politica).

L’abbiamo appena vista al lavoro, questa «macchina della paura», con l’uscita infelice di un magistrato che accusa le Ong di commercio di esseri umani, senza averne le prove e dichiarando di non averne. Anche in questo caso non hanno avuto ruolo i fatti, ma la loro percezione, la loro «audience» che si autoamplifica, senza che la ragione critica possa contrastarla.  Questo fa la macchina della paura, determina vincitori e vinti nel marketing del consenso. Il suo prodotto è il suo stesso carburante: l’odio, la barbarie sociale, la «cattiveria» come visione del mondo.

La politica che utilizza questa macchina – la politica della paura – non teme eventuali smentite da parte della realtà. Nel caso, le basta riorientare l’immaginario diffuso contro qualcun altro, nuovo e comodo responsabile dei fatti, anche di quelli «aggiustati» o del tutto inventati. Ora si tratta dei migranti per povertà, ora dei profughi, ora delle Ong, ora dei ladri casalinghi (ebrei e «zingari» restano sempre a disposizione, per le streghe può darsi che qualcuno si stia attrezzando). In questo modo, la politica smette d’essere progetto, scelta, responsabilità. Il suo tempo non è il futuro, ma un presente ridotto alle miserie del consenso. Il suo spazio non è la piazza, ma una messa in scena mediatica. Il suo referente non è il cittadino, ma il pubblico.

Non servono partiti, per una tale politica che nega se stessa. Le bastano leader telegenici, imprenditori politici dalla parlantina sciolta, attorniati da comprimari servizievoli e assistiti da esperti della comunicazione. Se tutto è percezione, i fatti sono derubricati a circostanze opinabili, sostituibili. Naturalmente, essendo cocciuti, prima o poi i fatti esplodono. Ma questo non fa che rimettere in moto la macchina della paura, dando nuovo carburante alla sua politica. A sfruttare l’«esplosione dei fatti» – difficoltà economiche, solitudini sociali, diseguaglianze – pensano imprenditori politici ancora più accorti, più specializzati, che oggi chiamiamo populisti. Per contrastarli, la politica per così dire tradizionale non si decide a governare i fatti, ma entra in concorrenza con loro, con i suoi avversari, enfatizzando ancora di più la percezione dei fatti, e manipolandola.

Si tratta di un paradosso, ma è il paradosso che spiega la riduzione di una parte rilevante del nostro orizzonte politico a odio, barbarie, «cattiveria». Gli uni vogliono dare al loro pubblico licenza di uccidere? Ebbene, gli altri non vanno per il sottile, e rilanciano la loro offerta nel marketing del consenso, di notte ovvero di giorno. Se poi qualcuno verrà ammazzato per eccesso d’entusiasmo degli sparatori casalinghi, non si tratterà che di un fatto.