Nel 2014 Stefano Collizzolli raccontò nel suo documentario Il pane a vita la chiusura del cotonificio Honegger di Albino, una fabbrica la cui storia può essere considerata un emblema della realtà economica, sociale, culturale della Valle Seriana e, per molti aspetti, dell’intera provincia di Bergamo. La famiglia Honegger aveva raggiunto la Bergamasca nella seconda metà dell’Ottocento, alimentando un flusso di emigrazione aziendale svizzero-tedesca che aveva portato numerosi stabilimenti tessili in una provincia dotata di risorse idriche, di tanta forza lavoro a buon mercato, di una classe lavoratrice che non aveva ancora conosciuto lo sviluppo di un forte movimento operaio. Proprio il tessile rimase uno dei settori che incrementarono il miracolo economico locale, nel secondo dopoguerra: si racconta che, ancora negli anni Settanta e Ottanta, attraversando i paesi della media Valle Seriana nei giorni feriali, si percorressero strade praticamente deserte, mentre s’udivano fuoriuscire da quasi tutti gli edifici i rumori dei telai impegnati nella produzione. Tra mito e realtà: per qualche anno, infatti, mano a mano che l’innovazione favoriva la sostituzione dei macchinari nelle grandi aziende, i macchinari più vecchi venivano svenduti alle botteghe artigiane. E quando le stesse botteghe artigiane intendevano liberarsene, quelle attrezzature quasi esauste venivano acquistate dalle operaie per installarle nelle loro cantine e adoperarle nel lavoro a domicilio. Ogni segmento di produzione, uscito dalle cantine o dalle botteghe, veniva in parte rivenduto alle fabbriche capofila che esportavano la maggior parte dei loro manufatti. È in questo contesto che le grandi imprese come la Honegger venivano considerate «il pane a vita», ossia gli stabilimenti di cui nessuno riteneva possibile la chiusura, perché ci avevano lavorato diverse generazioni di donne e di uomini.

Se negli anni del miracolo i telai correvano veloci, la Valle Seriana divenne la «valle dell’oro» grazie anche al lavoro edile: da qui, come da altre zone della provincia, ogni mattina partivano centinaia di furgoni che accompagnavano muratori, elettricisti, idraulici nei principali cantieri del Nord Italia. Tra quei lavoratori l’autosfruttamento era la norma, tanto che costituivano uno dei segmenti della classe lavoratrice italiana in cui, per qualche anno, ebbe maggiore diffusione la cocaina, che da queste parti prese il soprannome di «droga dei furgoncini bianchi». Alcuni lavoratori se ne servivano infatti per reggere la fatica e lo stress di 16 ore di lavoro e spostamenti, con partenze prima dell’alba e rientri dopo il tramonto: la provincia conobbe così la piena occupazione, e oltre.

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Tanto lavoro produceva una enorme quantità di ricchezza, della quale una minima parte soltanto venne socializzata. In proporzioni diverse – e per merito delle lotte operaie degli anni Sessanta che dilatarono i salari – poteva essere accumulata anche dai lavoratori, nella forma del risparmio. Questi costruivano case per se stessi e per i figli, mentre le imprese grandi e piccole reinvestivano nelle più varie attività. Anche per questo la provincia di Bergamo ha contato un alto numero di squadre di calcio contemporaneamente impegnate nelle categorie professionistiche italiane, così come una capillare diffusione di squadre di ciclismo semi-professionistico, presenti in decine di paesi sparsi per la provincia: erano possibili forme di investimento dei profitti.

Quando il settore tessile iniziò il suo lento declino, nei primi anni Ottanta, l’impegno della politica fu quello di evitare il disastro sociale, attraverso la cassa integrazione e i prepensionamenti: iniziava una fase di deindustrializzazione e di trasformazione di grandi fabbriche in unità di dimensioni ridotte, con minore capacità di impiego e impegnate in produzioni d’eccellenza: se nel 2001 gli addetti del settore erano ancora 33.000, nel 2010 erano già scesi a circa 15.000. Il fenomeno non dipendeva solo dall’innovazione tecnologica che riduce la capacità di impiego a parità di volumi prodotti: era la stessa produzione che veniva portata altrove. La provincia si spaccava, iniziavano i licenziamenti e i lavoratori reagivano spesso in un modo abbastanza comune da queste parti, ossia con il fatalismo e con la speranza che il licenziamento toccasse a qualcun altro: come nella scena finale de L’Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, dove i componenti delle famiglie che abitano la corte sbirciano dalla finestra il mezzadro licenziato che carica il suo carro, mentre pregano per lui e per se stessi, confidando che la stessa disgrazia non li tocchi.

Un intero mondo, insomma, è cambiato in fretta: la disoccupazione è oggi un male diffuso, anche se non riesce più a disorientare come avrebbe disorientato trent’anni fa, perché l’abitudine è un potente anestetico. I giovani non trovano lavoro stabile e non bastano più per trovare lavoro le tradizionali reti di relazioni e conoscenze – spesso mediate da elementi del clero locale che ha funzionato a lungo come un’agenzia di collocamento sul piano provinciale. Anche nella laboriosa Bergamasca si è diffuso il fenomeno, impensabile dieci anni fa, degli adolescenti che, dopo la scuola dell’obbligo, non studiano e non lavorano.

La ricchezza accumulata negli anni precedenti, però, funziona ancora da ammortizzatore sociale. La disoccupazione prodotta dal settore tessile, poi, ha creato principalmente disoccupazione femminile. Molte di quelle donne si sono così impiegate come collaboratrici domestiche saltuarie, come cassiere – spesso precarie – nei grandi supermercati sorti nel frattempo sul territorio, oppure in settori legati alla ristorazione, dove non guadagnano il necessario per vivere da sole, ma quanto basta per integrare il reddito di un marito o la pensione di un genitore. Molti dei neo-disoccupati, poi, erano forza lavoro straniera assunta negli anni d’oro che, con la crisi, sono rientrati al Paese d’origine o si sono diretti altrove, alimentando flussi di migrazione interna come quelli descritti nei rapporti curati da Michele Colucci e Stefano Gallo. Contemporaneamente, la diffusa rete assistenziale cattolica si è attivata per occuparsi delle centinaia di famiglie costrette dalle insormontabili difficoltà a rivolgersi agli sportelli Caritas, o ai parroci delle loro comunità.

Dal punto di vista politico, questi anni sono stati caratterizzati da una tendenziale mescolanza tra delusione e disimpegno, seguendo un andamento che non è certo solo locale. Le elezioni politiche del 2013, così come le amministrative del 2014, hanno visto un calo generale della partecipazione al voto. La Lega, con la quale il territorio orobico viene frequentemente identificato a livello nazionale, si è indebolita, ma è riuscita a mantenere un consenso prossimo al 10% in città e al 20% nella provincia, dove, in diversi comuni, ha avuto la forza di presentare in autonomia i propri candidati, nonostante il partito stesse attraversando il momento più complesso nella sua storia recente: in diversi comuni è riuscita a ottenere la maggioranza, qualche volta assoluta. Anche a causa della tenuta della Lega – che soprattutto nella provincia è sempre stata considerata dai suoi militanti un movimento né di destra, né di sinistra – il Movimento 5 Stelle non è esploso come in altre città: i suoi candidati sindaci erano pochi e, in genere, non sono andati oltre il 10% dei voti. In città, dopo cinque anni di centrodestra, è stato invece eletto per il centrosinistra uno dei sindaci più conosciuti d’Italia, Giorgio Gori.

In controtendenza rispetto ai vari fattori della crisi, però, Bergamo ha conosciuto almeno due ragioni di parziale sviluppo. In primo luogo, la città è stata riscoperta come autonoma meta di turismo. Per decenni fu luogo di attrazione per il turismo regionale nei fine settimana o per il turismo colto, di chi veniva da lontano per conoscerne le più note opere d’arte. Oggi, invece, anche in ragione dei controversi processi avviati con il potenziamento dell’aeroporto, il numero dei turisti ha conosciuto un aumento costante. Di Bergamo come città d’arte e di turismo – si pensi alla riapertura dell’Accademia Carrara nel 2015 – si è parlato spesso nei media nazionali e internazionali, anche grazie alle operazioni di marketing favorite proprio dalla presenza di un sindaco che gode di una notorietà nazionale. Sono esplosi i Bed&Breakfast; alcune zone urbane hanno vissuto processi di trasformazione e diffusione di nuovi servizi alberghieri, di ristorazione o per il tempo libero. Secondariamente, l’università cittadina si è allargata, un numero crescente di studenti si sposta dalle valli o dalla pianura per studiare – anche a causa dell’assenza di lavoro. La città conta più giovani studenti che abitano soprattutto alcuni quartieri, che consumano, che desiderano divertirsi. Tutto questo ha prodotto un indotto capace di compensare parzialmente gli effetti di una crisi che c’è, si sente nelle case – dove frequentemente si coltivano paure e rancori – ma, in fondo, non si vede nelle strade.

 

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