L’attacco con il gas (presumibilmente il sarin) a Khan Sheikhoun, in Siria, il 4 aprile scorso e il lancio di missili ordinato da Trump qualche giorno dopo hanno suscitato molti commenti ma poche analisi, spingendo la nostra opinione pubblica, già predisposta a questa tentazione, a lasciarsi andare a una logica di schieramento, che nei social media ha visto il pianto accorato per la sorte dei bambini colpiti ma anche, subito dopo e spesso dalle stesse persone, l’indignazione per l’azione neoimperialista del presidente americano.

A oggi ancora non è chiara la dinamica dell’attacco che ha provocato oltre 80 vittime. Sono previste inchieste (la più importante da parte della Organization for the Prohibition of Chemical Weapons) che lo stesso Putin richiede adesso con insistenza. Ma affinché qualsiasi indagine porti a qualche risultato occorre che la Siria collabori, cosa che al momento sembra improbabile. La presenza del sarin sembra al momento essere confermata dalle testimonianze dei medici presenti e dai risultati dei primi test autoptici compiuti in Turchia sotto il controllo dell’Organizzazione mondiale della sanità.

Tutti gli esperti in armi chimiche concordano sul fatto che i ribelli siriani, quelli che secondo Assad e Mosca avevano nascosto il gas in un magazzino colpito casualmente dai bombardamenti degli aerei governativi, non dispongano delle minime capacità tecniche di stivare e controllare un gas pericoloso e difficile da maneggiare come il sarin. Una constatazione che vale un po’ di più, probabilmente, della valutazione che Assad non aveva alcun interesse, nel momento in cui sta vincendo, a utilizzare un’arma che aveva giurato essere stata distrutta. La logica dell’uso delle armi chimiche, da quando sono state usate, è quella di terrorizzare la popolazione, per costringerla a fuggire o comunque per indebolirne fortemente le capacità di reazione. Che questo fosse l’obiettivo di Assad nel bombardamento di Khan Sheikhoun è testimoniato in modo abbastanza chiaro dall’attacco che, qualche giorno dopo e proprio sull’onda delle polemiche su chi fosse il responsabile del lancio del sarin, lo stesso Assad ha lanciato a Saraqeb, a pochi chilometri di distanza dal bombardamento chimico. In questo caso sono state lanciate bombe incendiarie di fabbricazione russa che sono proibite dal terzo protocollo della Convenzione sulle armi convenzionali, che la Siria non ha firmato ma la Russia sì, e i suoi aerei hanno partecipato all’attacco rendendo oggettivamente corresponsabile anche il governo di Putin.

A fronte della necessaria e legittima attesa dei risultati delle inchieste, non ci si può, tuttavia, nascondere dietro la convinzione fideistica che Assad aveva distrutto del tutto il suo armamentario chimico e che lui e Putin non avevano alcun interesse a montare, in questo momento di parziale vittoria sul terreno militare, un “caso” del genere. Al momento sono prevalenti le possibilità che il sarin sia stato sganciato volutamente dagli aerei di Assad e che Putin ne sia stato preventivamente informato.

Il secondo grande interrogativo su cui si è dibattuto riguarda la reazione militare di Trump, considerata, almeno in Italia, una legittima risposta momentanea al crimine commesso (questa la posizione del governo, ad esempio) o, nella gran parte delle risposte del “popolo di sinistra”, un pericoloso intervento che non farà che compiere una escalation disastrosa alla violenza in quella regione.

Vale la pena, prima di rispondere in modo automatico e non riflessivo sulla base di principi generali e di valutazioni che riguardano la figura di Trump, considerare, per esempio – nessuno in Italia ne ha parlato – le reazioni che hanno manifestato uomini e donne che sono state vicinissime a Obama nel momento in cui, nel 2013, minacciò l’intervento se Assad avesse superato “la linea rossa” dell’uso delle armi chimiche, salvo poi decidere successivamente di credere a un accordo per la distruzione completa di quelle armi grazie alla mediazione della Russia di Putin. Michael McFaul, che era all’epoca ambasciatore di Obama in Russia, ha ricordato il pericolo di “fare accordi” con i dittatori; Anne-Marie Slaughter, figura di spicco del Dipartimento di Stato di Obama, ha twittato che Trump aveva fatto la cosa giusta: “Finalmente! Dopo anni di inutili strette di mano di fronte a orrende atrocità”.

Certamente i motivi che hanno spinto Trump sono stati prevalentemente di ordine interno, e l’azione non risulta inserita in una chiara strategia, di cui probabilmente lui stesso non conosce il seguito, le possibilità, i risultati. La sua azione, tuttavia, ha posto il mondo intero di fronte alla domanda cui non si è riusciti a dare il minimo tentativo di risposta in tutti gli anni della mattanza di Assad, che ha ormai raggiunto la cifra del mezzo milione di vittime e di parecchi milioni di profughi e rifugiati: cosa fare per fermare non già una guerra locale più o meno circoscritta, ma ripetuti e diffusi crimini contro l’umanità e tentativi di genocidio? Bisognerebbe cogliere l’occasione della risposta di Trump per tentare di rispondere a questo quesito, invece di allontanarlo ancora sulla base di una condanna scontata quanto inutile del suo comportamento.