«Foreign Affairs», la voce ufficiosa ma autorevolissima dell’establishment di politica estera, ha pubblicato recentemente un numero sul populismo internazionale, incaricando lo storico Michael Kazin di definire la categoria e indicarne i numerosi precedenti. Kazin vede il populismo americano diviso in una tradizione positiva su base di classe, progressista e partecipativa, recentemente incarnata dal senatore Bernie Sanders, e una autoritaria e critica dell’alleanza tra i potenti e un sottoproletariato etnico/razziale passivo e mantenuto a spese della classe media operosa e patriottica dei «veri americani», incarnato a sua volta da Trump. Durante la campagna per le primarie il loro messaggio ha avuto, accanto a profonde divergenze, alcuni toni e temi comuni che hanno visto frequenti tentativi di portarsi reciprocamente via pezzi di elettorato popolare.

I due populismi hanno un altro punto in comune: sono entrambi nazionalisti e critici della globalizzazione, vista per l’attuale presidente come la congiura solidale di élite cosmopolite nazionali ed estere a danno della nazione e del lavoratore americano, per Sanders come tendenza promossa e controllata dalle grandi multinazionali con gli stessi risultati. Benché dopo le elezioni Sanders sia diventato uno dei principali critici del nuovo presidente, tuttavia ha promesso collaborazione a Trump contro accordi commerciali considerati discriminatori nei confronti dei cosiddetti «perdenti della globalizzazione», soprattutto impiegati nel lavoro manifatturiero generico, e a favore di iniziative che ne sostengano il reddito. Quindi entrambi coltivano il primato dell’«American Way», ma qui le strade si dividono di nuovo: il populismo progressista si basa su un «nazionalismo civico» fondato sulla leadership americana volta a realizzare, sull’esempio del presidente Woodrow Wilson, il diritto di tutti gli esseri umani a benessere e democrazia. L’altro ipotizza un mondo ostile all’America e fa riferimento a un «nazionalismo razzializzato» di nazioni legate da vincoli di sangue, etnia e colore della pelle.

Benché, a differenza di molti Paesi europei, il bipartitismo americano abbia tenuto, tuttavia la scena politica statunitense attuale indica che in realtà i quattro «partiti» che hanno caratterizzato la gara presidenziale, il populismo etnico di Trump, il partito repubblicano reaganiano, la rivolta classista di Sanders e l’establishment centrista clintoniano e obamiano dei democratici, sono ancora al centro del palcoscenico. Tutte le loro divisioni, dice la rivista «New Republic», indicano la potenziale rottura del consenso politico di base che aveva tenuto unito il Paese e le leadership di ambo i partiti, e non sono solo il frutto di una lunga presenza storica del populismo, ma anche di tuoni populisti che avevano caratterizzato i recenti decenni. Le fratture politiche sono ancora al centro della vita politica americana attuale, in un contesto in cui oggi i repubblicani dominano le istituzioni del Paese: Casa Bianca, Congresso, Corte Suprema (con il nuovo giudice conservatore designato da Trump) e la maggior parte degli Stati: insomma, tutto. Non c’era un predominio repubblicano così assoluto probabilmente dagli anni Venti.

Eppure a tre quarti dei «cento giorni» di Trump, quando la «luna di miele» del recente eletto con l’opinione pubblica gli dà maggiori spazi di iniziativa, la divaricazione tra populismo trumpiano e repubblicanesimo reaganiano non è superata. Trump si scontra con segmenti potenti della società e della politica: le sue norme sull’immigrazione musulmana, una delle sue bandiere populiste, si sono scontrate con il potere giudiziario. È stato populista nel discorso di inaugurazione e presidenziale nella prolusione sullo Stato dell’Unione davanti al Congresso. E tuttavia ha immediatamente provveduto a metterlo populisticamente in imbarazzo, chiedendo una inchiesta sulle presunte intercettazioni dell’amministrazione Obama durante la sua campagna elettorale, accuse non provate come dicono diversi repubblicani importanti. È un diversivo per uscire dallo scandalo dei rapporti tra i suoi collaboratori e la diplomazia russa coinvolta nelle elezioni presidenziali americane, segno del contrasto con l’intelligence e la grande stampa? Ha minacciato la cancellazione dell’Obamacare (finora senza riuscirvi) e della legge di regolamentazione finanziaria Dodd-Frank, ma come farlo e cosa metterci al loro posto resta oscuro e potenzialmente divisivo e impopolare. Il suo proclamato piano pubblico di ammodernamento delle infrastrutture del Paese per creare posti di lavoro si scontra con il conservatorismo fiscale e antigovernativo di molti congressisti repubblicani.

L’idea di una reaganiana riduzione delle tasse sull’attività economica e di aumento delle spese militari mantiene Wall Street di buon umore, ma l’intenzione di rinazionalizzare molti posti di lavoro esportati all’estero dalle grandi imprese incontra resistenze implicite ed esplicite. In politica estera ha fatto una parziale, ortodossa marcia indietro nelle critiche all’Europa e nell’asse con Putin, ma crea frequenti frizioni internazionali e la possibilità di una sua visita mette in imbarazzo, come nel recente caso della Gran Bretagna, un governo straniero, perché c’è sempre qualcuno pronto a raccogliere un milione di firme contro questa possibilità. Il tutto condito da uno stillicidio di manifestazioni popolari, prevalentemente contro, qualcuna anche pro, dall’imbarazzo dei casi di intolleranza, soprattutto antisemita, e dalla rivelazione dei conflitti tra i suoi consiglieri populisti e ortodossi. I democratici stanno molto peggio. Sono divisi e prostrati e la battaglia tra l’establishment clintoniano-obamiano e la sinistra infuria, malgrado i tentativi mimetici. Già nel maggio 2014 Robert B. Reich, ex ministro del Lavoro di Clinton e uno dei maggiori intellettuali pubblici del Paese, pubblicava i «Sei Principi del Nuovo Populismo» che vedeva crescere sia tra i repubblicani, con figure come Paul Rand, Ted Cruz e i Tea Parties (Trump era ancora di là da venire), sia tra i democratici come Elisabeth Warren e Bernie Sanders, di cui è diventato uno dei vati e consiglieri. Notava differenze e vicinanze tra i due populismi e tra gli obiettivi di quello progressista indicava: recuperare la distinzione tra banche di deposito e di investimento, cancellata da Clinton; abolire la rete dei sussidi pubblici a grandi settori industriali e finanziari; contenere i grandi interessi che spingono l’America agli interventi internazionali; bloccare gli accordi commerciali scritti dai dirigenti delle imprese multinazionali.

Nel luglio 2016, quando la campagna di Sanders, fondata sulla contrapposizione tra «Noi, il Popolo» – dal linguaggio della Costituzione – contro la «classe dei miliardari» è terminata, il senatore ha cercato di stabilizzare un movimento di populismo democratico stabile e incisivo che chiede il servizio sanitario nazionale, gratuità delle università pubbliche e un netto rialzo del salario minimo.

Dopo la sconfitta elettorale la sinistra democratica ha incrementato il suo peso nel partito e Sanders, insieme con la Warren, è impegnato a tentare di recuperare ai democratici strati popolari in fuga fin dai tempi di Reagan. Il suo populismo cerca di coniugare insieme la politica etnico/sociale dell’arcobaleno con misure a favore degli sconfitti della globalizzazione. E tuttavia la lacerazione tra i democratici è profonda e il cosiddetto establishment colleziona vittorie: nel novembre 2016 il senatore di New York Chuck Schumer, molto legato ad ambienti economico-finanziari, è stato eletto leader della minoranza al Senato. Il conflitto si è rinnovato nella battaglia per la presidenza del Comitato nazionale democratico, organo supremo del partito, tra il deputato nero musulmano Ralph Ellison, sostenuto dalla sinistra e dallo stesso Schumer, e Tom Peretz, di origini dominicane, ex ministro del Lavoro di Obama, sostenuto dall’ex vicepresidente Joe Biden e da molti dei congressisti e governatori democratici. Dopo tensioni e proteste, quest’ultimo ha vinto di misura. Ma la frattura è profonda e, malgrado i tentativi di mediazione (Schumer ha subito eletto i senatori della sinistra suoi principali collaboratori, e Ellison è stato subito nominato vicepresidente), complica il dibattito su come opporsi a Trump.

Quindi le tensioni tra ortodossie e populismi sono attualmente irrisolte in entrambi gli schieramenti. La sconfitta di Trump sulla cancellazione dell’Obamacare ribadisce il costo politico di eliminare fondamentali servizi sociali, che era stato un articolo di fede per i repubblicani dopo pesanti prezzi politici pagati da Reagan su questo tema. Il recentissimo intervento in Siria, dopo la cacciata dal National Security Council di Steve Bannon, vessillifero della destra populista e campione della linea «competitivi con i cinesi e amichevoli con i russi», ha visto infine Trump allinearsi con il tradizionale interventismo repubblicano.