L’Unione europea continua a essere prigioniera di una retorica paralizzante, ossia quella che la vedrebbe costituita da Stati membri che condividono lo stesso obiettivo finale (gli «Stati Uniti d’Europa»), anche se perseguito attraverso tempi diversi. In realtà, dietro la retorica unitaria, gli Stati membri hanno preservato e perseguito differenti prospettive circa gli scopi e la natura del processo di integrazione. Vediamo perché.

I nazionalismi europei. Per alcuni Stati dell’Europa occidentale e continentale, il processo integrativo doveva servire a tenere sotto controllo il diavolo del nazionalismo autoritario che aveva portato alla drammatica fine delle loro democrazie tra le due guerre mondiali. Per altri (come il Regno Unito o i Paesi scandinavi), il nazionalismo aveva invece assunto un carattere democratico, fornendo le risorse per difendere le democrazie nazionali dalle aggressioni autoritarie. Con l’allargamento ai Paesi dell’Est europeo, la differenziazione all’interno dell’Ue si è quindi ulteriormente accentuata. A lungo sotto il dominio sovietico, quei Paesi hanno ritrovato nel nazionalismo la fonte di una rinnovata identità nazionale. La loro entrata nel processo di integrazione, dovuta a ragioni di sicurezza geo-politica e di necessità economica, ha finito per creare una situazione paradossale. Il loro nazionalismo ha faticato a conciliarsi con un progetto post-nazionale, creando tensioni al loro interno trasferite poi sul piano europeo.

Seppure impegnati a dare vita a un’unione sempre più stretta, i Paesi dell’Europa occidentale-continentale si sono divisi a loro volta circa il progetto istituzionale da costruire. Si può dire che l’Ue, almeno da Maastricht in poi, è venuta a differenziarsi sia sul piano delle politiche sia su quello dei metodi per deciderle. Le politiche regolative del mercato unico sono decise attraverso un metodo definito come «comunitario» o sovranazionale, in cui la Commissione ha il monopolio dell’iniziativa legislativa, il Consiglio dei ministri (poi solo Consiglio) e il Parlamento europeo condividono il potere di co-decidere sulle proposte avanzate dalla Commissione e il Consiglio europeo dei capi di governo assolve una funzione di risolutore di ultima istanza di controversie altrimenti non risolvibili. Tuttavia, nelle nuove politiche entrate nell’agenda europea a partire da Maastricht, il processo decisionale è monopolizzato dai due organismi intergovernativi del Consiglio e soprattutto del Consiglio europeo, con la Commissione che assolve un ruolo di supporto tecnico e il Parlamento europeo collocato in una posizione marginale (viene «informato» delle decisioni prese dai capi di governo nazionali). Mentre nel mercato unico il processo integrativo procede attraverso provvedimenti legislativi, nelle altre politiche esso procede di più attraverso decisioni politiche. Dunque l’Ue è diventata un’organizzazione internamente differenziata. Tali differenziazioni multiple sono dovute al fatto che gli Stati europei sono entrati nel processo di integrazione sulla base di prospettive appunto diverse relativamente allo scopo di quest’ultimo. Brexit è l’espressione di tali divisioni. L’idea di tenere tutti gli Stati europei all’interno di un unico progetto integrativo non ha funzionato. Ma come organizzare la differenziazione dell’Unione europea? Da più parti si è cercato di dare una prospettiva a quelle differenze attraverso la formula dell’Europa a diverse velocità. Per dirla con la Dichiarazione che sarà firmata a Roma il 25 marzo, nel corso del Summit in occasione del sessantesimo anniversario dei Trattati, «we will act together whenever possible, at different paces and intensity where necessary». Questa formula è una sorta di filosofia pubblica dell’Ue proprio per la sua ambiguità. L’ambiguità è inevitabile quando la discussione sul futuro dell’Ue continua a essere prigioniera di false alternative.

La differenziazione dell’Ue e la Commissione europea. Si consideri il Libro Bianco sul futuro dell’Europa che il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker ha presentato al Parlamento europeo il 1o marzo 2017. In quel Libro Bianco vengono previsti cinque scenari sul futuro dell’Europa, poco plausibili e molto confusi. Consideriamoli, cominciando dai due scenari estremi, quello di «andare avanti giorno per giorno» e quello di «fare molto di più insieme». Come si fa ad ipotizzare la politica del «business as usual» quando l’Ue, di fronte ai cambiamenti interni ed esterni, dovrà prendere decisioni che incideranno addirittura sul suo assetto istituzionale? Allo stesso tempo, di fronte alla rinascita dei nazionalismi, è sorprendente che venga riproposta l’idea che si debba fare tutto insieme ovvero (testuale) che «la cooperazione tra gli Stati membri debba andare molto più avanti in tutti gli ambiti». Si noti, si parla di «tutti gli ambiti», come se l’integrazione fosse appunto finalizzata a costruire uno Stato europeo in sostituzione degli Stati nazionali.

Tra questi due scenari estremi, la Commissione ne individua altri tre, anch’essi poco giustificabili. Uno è quello di «ritornare al mercato unico», cancellando di colpo ciò che è avvenuto dopo Maastricht (come la formazione di un’Eurozona, di una Banca centrale europea, di una politica comune nella sicurezza e negli affari esteri). Sarà mai possibile? Non pare proprio. L’altro è quello di concedere «a chi vuole di più di fare di più» (dando vita a coalizioni tra Paesi volenterosi per perseguire specifici programmi). Ma quali sono le conseguenze di tali molteplici collaborazioni differenziate sul piano della legittimazione democratica? Non se ne parla. L’altro infine è quello «di fare di meno ma con più efficienza», come se quest’ultima fosse inversamente proporzionale al numero di cose che si fanno. Che strana idea. Insomma, gli scenari proposti dalla Commissione sembrano essere un’insalata russa. Non c’é un quadro di riferimento né un’idea delle priorità da seguire.

Se vogliamo semplificare il Libro Bianco della Commissione, possiamo dire che vi sono due posizioni estreme e una posizione intermedia ambigua, quella cioè dell’Europa a diverse velocità.  Per quanto riguarda le posizioni estreme, da una parte c’è chi sostiene che occorra andare avanti alla meglio, dall’altra chi avanza invece la necessità di un grande Big bang. Per i primi, ciò che conta è far funzionare la macchina dell’Ue, generare qualche bene pubblico là dove è possibile, adattare il processo integrativo alle esigenze (o alle scadenze elettorali) dell’uno o dell’altro Paese. Per i secondi, invece, l’Ue deve andare verso una nuova Convenzione costituzionale che rilanci l’obiettivo di un’unione sempre più stretta tra i 27 Paesi, come risposta alle durezze che provengono da Washington e da Londra.

Entrambe le prospettive sono poco plausibili. Per i sostenitori del primo approccio, l’Ue si legittima attraverso i risultati delle sue politiche. Ma l’Ue non è un’organizzazione internazionale che si legittima attraverso la qualità dei suoi risultati (come, ad esempio, l’accordo di libero commercio tra Canada, Stati Uniti e Messico, il Nafta). Ovviamente, la qualità delle sue politiche conta, ma non basta. Né si può pensare di continuare a mascherare l’operato dell’Ue, come suggeriva Delors, per evitare di sollevare reazioni nazionalistiche. È necessario un nuovo paradigma per pensare al futuro dell’Ue.

L’unione federale in un’Europa plurale. Da tempo è finito il consenso silenzioso al processo di integrazione. Alla sfida politica dei nazionalismi e dei populismi non si può rispondere con soluzioni tecnocratiche (come sostengono i cultori del «muddling through»). Occorre invece accettare quella sfida in campo aperto, difendendo le ragioni dell’Ue, ma con un progetto innovativo e realistico sul suo futuro. Ma non si può rispondere neppure con soluzioni ideologiche e normative, come fanno i sostenitori del secondo approccio, secondo i quali l’Ue non potrà legittimarsi pienamente fino a quando non diventerà uno Stato federale coerentemente parlamentare. Uno Stato funzionante sulla base della competizione tra partiti politici europei finalizzata a conquistare il controllo della Commissione, intesa come l’esclusivo governo europeo. Tuttavia, non sarà così. L’Ue non potrà mai diventare uno Stato federale parlamentare in grande, così da riassorbire al suo interno gli Stati membri, trasformandoli in Länder alla tedesca. Ma anche perché la costruzione di un’unione di Stati è qualitativamente diversa dalla costruzione di uno Stato.

Un’unione di Stati deve partire dalla presa d’atto che gli Stati nazionali non si aboliscono con un tratto di penna, né si può pensare di trasformare le loro cittadinanze in un popolo europeo diviso esclusivamente dalle appartenenze politiche (di sinistra o di destra). Peraltro, solamente riconoscendo le identità nazionali si potrà prevenire la loro trasformazione in nazionalismi.

L’Ue è un’unione di Stati demograficamente asimmetrici e con prospettive diverse relativamente al processo di integrazione. È su questi vincoli sistemici che va costruito il futuro dell’Europa. Occorre promuovere un’unione (non già uno Stato) federale intorno ai Paesi dell’Europa continentale-occidentale (per neutralizzare i loro dèmoni nazionalisti), rafforzando contemporaneamente il mercato unico come luogo strutturato di collaborazione tra di essi e gli altri Paesi europei. Non già la differenziazione, ma lo sdoppiamento dell’attuale Ue può stabilizzare il continente e neutralizzare le spinte sovraniste.