A sessant’anni dalla firma dei Trattati di Roma, è più che mai urgente interrogarsi sulle linee istituzionali del futuro governo dell'Unione, in una fase nella quale da più parti si comincia a percepire quanto negativamente pesi il modo attuale di funzionamento di un’Europa incapace di fare fronte alle proprie crisi in modo a un tempo efficace e democratico, dando così fiato a fortissime reazioni di rigetto.

Il modello che qui vorremmo sinteticamente rappresentare consiste nel dare forma compiuta a una struttura istituzionale dell’Unione di tipo parlamentare, basata sul principio della federazione tra Stati nazionali. Se vuole essere coerente con questa impostazione, un governo democratico dell’Unione non può fondarsi se non sulla doppia legittimazione costituita da un’Assemblea rappresentativa della volontà popolare – espressa a suffragio universale, con il quale si elegge il Parlamento europeo – e da una Camera degli Stati che può, come ora avviene, essere sdoppiata nei due Consigli europeo e dei ministri, il primo con funzioni di impulso politico e di governo, il secondo con funzioni legislative. Nei due Consigli trovano spazio adeguato le differenti identità storiche, economiche, sociali, politiche e culturali degli Stati dell'Unione.

L’assemblea elettiva che rappresenta i cittadini europei deve essere necessariamente costituita su base proporzionale rispetto alla popolazione, come avviene con la Camera dei Rappresentanti americana, anche se sono possibili minori aggiustamenti in favore dei Paesi più piccoli. La Camera degli Stati può e deve invece dare maggiore spazio a ciascuno Stato membro; nel caso europeo, che in ciò si differenzia dal modello d’oltre Atlantico, la disciplina di Lisbona ha, dopo un lungo travaglio, individuato un meccanismo equilibrato, in virtù del quale per una delibera assumibile a maggioranza occorre il voto di almeno il 55% dei governi, che rappresentino almeno il 65% della popolazione.

Secondo questo modello il presidente della Commissione è eletto dal Parlamento europeo, ma la scelta è necessariamente integrata con il voto dal Consiglio europeo. Lo esige la procedura attuale, ormai evoluta con l'importante innovazione del 2014 che ha creato un rapporto più diretto tra il voto popolare e le candidature alla presidenza: una procedura che potrebbe venire ulteriormente sviluppata anche attraverso primarie organizzate dai partiti europei. Il potere di censura della Commissione, oggi limitato al Parlamento, potrebbe in futuro spettare anche al Consiglio.

Una questione cruciale che a questo punto si pone in merito al governo dell’Unione è quella del rapporto tra il Consiglio europeo e la Commissione stessa. La prassi costante da oltre un decennio è consistita nell'assunzione dei principali impulsi politici da parte del Consiglio europeo: le scelte di fondo dell’Europa, nel bene e nel male, sono avvenute così. È da considerare costituzionalmente corretta una tale assunzione di funzioni di governo da parte del Consiglio? Si potrebbe argomentare che il Consiglio europeo, composto dai vertici di governo degli Stati membri, non abbia un’autonoma legittimazione a livello sovranazionale; ma ritengo questa tesi non fondata, in quanto i responsabili dei governi nazionali quando sono riuniti in collegio ed esercitano le funzioni loro riconosciute dai trattati costituiscono a ogni effetto un organo dell'Unione. A condizione, tuttavia, di operare secondo il principio fondamentale sperimentato da oltre duemila anni: si deve poter decidere a maggioranza quando vi sia disaccordo. Che è poi esattamente ciò che avviene, ad esempio, nel Consiglio della Banca centrale europea, la quale ha funzionato e funziona in quanto al suo interno vige il principio maggioritario. D’altra parte, solo la co-decisione del Parlamento europeo è in grado di assicurare alle scelte legislative e alle maggiori scelte di governo dell’Unione il crisma della democraticità. I limiti del metodo intergovernativo – limiti di efficienza e carenza di legittimazione democratica – sono ormai evidenti.

A sua volta, la Commissione dovrebbe comunque conservare il potere di iniziativa legislativa e di proposta, pur senza necessariamente mantenere il monopolio oggi stabilito nei trattati. E così pure dovrebbe poter fare il Parlamento europeo. Inoltre la Commissione dovrebbe costituire l'organo di attuazione delle decisioni politiche, cioè esercitare il potere esecutivo in senso stretto, incluse la politica estera e di sicurezza. Si deve in ogni caso evitare di costituire una seconda struttura esecutiva a fianco di quella della Commissione. Per funzioni diverse, tecnicamente complesse – ad esempio in tema di energia, di sicurezza, di difesa e di armamenti comuni – sarebbe inoltre importante la creazione di agenzie speciali, controllate dalla stessa Commissione ma seguite e valutate anche dal Parlamento europeo, come già oggi avviene per la Bce.

Questa impostazione configura, come è chiaro, una struttura duale del potere di governo dell’Unione. Non ritengo che ciò sia in contrasto con le esigenze di efficienza né con quelle di democrazia. In realtà, tutte le democrazie moderne hanno in comune una configurazione nella quale è più corretto parlare di equilibrio tra i poteri piuttosto che di rigida separazione tra di essi. L'esempio americano lo conferma, se si considera che il presidente può bloccare una legge del Congresso se non vi siano i due terzi di maggioranza per l'approvazione della legge stessa; e che il Senato americano ha robusti poteri di controllo anche su scelte governative fondamentali, quali le nomine a posti di governo e soprattutto alle candidature per la Corte suprema.

La soluzione qui delineata deve pertanto considerarsi democraticamente legittimata. Essa presenta inoltre, se non vediamo male, il forte vantaggio di collocarsi lungo un percorso di continuità rispetto alla configurazione istituzionale e costituzionale che l'Unione europea ha ormai in larga misura realizzato, secondo linee di evoluzione che si sono andate precisando in senso univoco e coerente dagli esordi del 1950 sino al Trattato di Lisbona del 2008. La continuità non è elemento di poco conto in una vicenda politica e istituzionale resa ardua da enormi ostacoli, a cominciare dalle accanite resistenze dei governi nazionali.

Questo modello prevede pertanto un potere di governo ripartito tra il Consiglio europeo e la Commissione, mentre il potere legislativo sarebbe condiviso tra il Parlamento europeo e i due Consigli (Consiglio europeo per le proposte, Consiglio dei ministri per la decisione legislativa). Il Parlamento europeo dovrebbe poter esercitare senza eccezioni il potere di co-decisione legislativa e acquisire inoltre un proprio potere fiscale al livello europeo, anch'esso condiviso con i Consigli, abilitati sempre a decidere a maggioranza. Quest'ultima sarà – a seconda delle materie – semplice, assoluta, qualificata o super-qualificata, ma comunque stabilita in modo tale da non consentire a un singolo Stato e neppure a due governi di bloccare una decisione. Per conseguire questi risultati sarebbero necessarie e sufficienti poche ma decisive riforme istituzionali, al limite solo tre o quattro emendamenti rispetto ai trattati vigenti.

C’è di più. L'evoluzione di cui si è detto si pone in una linea di compatibilità e di continuità con le disposizioni che il Trattato di Lisbona ha stabilito sulla cooperazione rafforzata in materia di economia e sulla cooperazione strutturata in materia di difesa, entrambe sinora utilizzate solo in minima parte. E poiché una qualsiasi riforma dei trattati richiede tempi non brevi, dell’ordine di non meno di cinque o sei anni, l’adozione del modello qui illustrato costituirebbe un indubbio vantaggio, perché interverrebbe nel segno della continuità. L’Unione ha assoluta necessità di muoversi rapidamente per fare fronte in modo efficace alle sfide cui sinora non ha dato risposte adeguate, scatenando le allarmanti resistenze popolari che ben conosciamo.

Su questi temi sarebbe importante che si sviluppasse una discussione approfondita, perché la sorte futura dell'Europa è legata al modo in cui essi saranno affrontati.