La Corte d'Appello di Trento ha recentemente deciso che due gemelli, nati da fecondazione eterologa e con gravidanza per altri (o, come spesso si dice, un po' impropriamente, utero in affitto), hanno diritto ad avere due genitori legalmente riconosciuti, che in questo caso sono due uomini gay uniti civilmente. Nel 2014 lo stesso diritto era stato riconosciuto dal Tribunale dei minori di Roma a una coppia di donne. La legge Cirinnà tuttavia non ammette questo diritto – cioè il diritto di adottare il figlio del coniuge dello stesso sesso. Nelle motivazioni della sentenza i giudici di Trento insistono sul fatto che l'ordinamento giuridico del nostro Paese non vincola il modello di genitorialità da proteggere, e non si limita esclusivamente alla genitorialità biologica. La nozione di «responsabilità genitoriale» che è al centro di molte disposizioni del diritto italiano – per esempio di quelle che regolano l'adozione e l'affido – si concentra sul legame volontario di cura – cioè sulla scelta di genitori anche non biologici di prendersi cura e fornire un contesto familiare al minore. Un'altra idea che anima la regolamentazione giuridica italiana, per esempio le leggi sull'affido, è la convinzione che avere una famiglia – intesa come adulti che curano – sia un diritto del minore, tanto che, quando la famiglia biologica non riesce a fornire le cure necessarie, si può affidare una supplenza a una famiglia affidataria, la quale può essere formata anche da un singolo.

La sentenza del 2014 non ha destato, se la memoria non m'inganna, le stesse accese perplessità della sentenza di Trento. Ci sono due differenze fra le due sentenze: nel caso di Trento in primo luogo i due genitori sono maschi e gay e, in secondo luogo, per quanto uno dei due sia padre naturale, è ovvio che la gestazione dei due gemelli sia avvenuta ricorrendo al corpo di una donna.

Bisogna capire se queste differenze giustificano un atteggiamento diverso. A livello giuridico, secondo i giudici di Trento, non ci sono giustificazioni, evidentemente. Ma i giudici potrebbero sbagliarsi, o almeno potrebbero errare sul piano logico o morale. Giuseppe Maria Fontana, sostituto procuratore dello stesso tribunale, ha sostenuto, in un'intervista a «La Stampa», che la sentenza va contro i principi dell'ordinamento italiano, perché uno dei due genitori era già stato riconosciuto nel suo status, mentre l'altro godeva dei diritti previsti dalla legge Cirinnà. Ma non si capisce bene che cosa questo voglia dire, perché tra i diritti tutelati dalla legge sulle unioni civili non ci sono i diritti del minore ad avere riconosciuti come genitori tutti coloro che partecipano alla sua cura.

Il punto è questo, dunque: se si riconosce che la famiglia è una relazione di cura, una relazione storica, non biologica (o non esclusivamente o necessariamente biologica), oggetto di libera scelta, non si può negare lo status di genitori a tutti coloro che curano dei minori in maniera continuativa e profonda – single, coppie dello stesso sesso e forse anche gruppi più numerosi. (L'ultima cosa può evocare scenari apocalittici, di comuni o relazioni promiscue. Ma mi chiedo che cosa erano, se non gruppi di genitori plurali, le vecchie famiglie patriarcali, dove nonni e zii si prendevano cura della prole in maniera diffusa e paritaria, insieme ai genitori biologici. E non mi pare che questo facesse scandalo.) Per resistere a quest'allargamento, cioè per dire che, per esempio, le coppie gay non possono essere genitori come le coppie eterosessuali, bisogna spiegare perché l'orientamento sessuale o il genere impediscano di svolgere certe funzioni di cura. Non mi pare che ci siano argomentazioni – né scientifiche, né filosofiche – che vadano in questo senso. Peraltro, queste argomentazioni, anche se ci fossero, non spiegherebbero perché due gay non possono essere genitori, ma due lesbiche sì – come parrebbe, stando alle differenti reazioni alle due sentenze di Roma e Trento. Quello che motiva molte reazioni alla sentenza di Trento, credo, è un presupposto diverso, più rozzo: l'idea che gli uomini possono essere papà, ma non mamme, e che i bambini abbiano bisogno di un papà e di una mamma, e non di due papà o di due mamme. Ma quest'idea, oltre a essere priva di riscontri e fondamenti scientifici e biologici, andrebbe anche contro l'adozione o l'affido a singoli – una conseguenza forse non voluta dai molti che si scagliano contro l'adozione e la genitorialità per le coppie gay.

Rimane il problema dell'utero in affitto. Ma anche ammettendo che l'utero in affitto sia pratica perniciosa e da proibire, non si capisce perché questo dovrebbe implicare che chi deve la sua esistenza a questa pratica debba soffrire e venire privato dei suoi diritti. I bambini nati dall'utero in affitto sono le vittime, eventualmente, non i colpevoli. Privarli dei genitori equivarrebbe a punirli per una colpa che non hanno. E, ovviamente, punire i loro genitori allontanandoli da loro – una volta che la relazione affettiva si sia formata – sarebbe mostruoso. Pensiamo a due analogie. In primo luogo, le madri hanno il diritto ai loro figli, e i figli alle loro madri, anche in carcere – le detenute possono allevare i loro figli, almeno al di sotto di una certa età. In secondo luogo, ci sono bambini dati in adozione con procedure non sempre trasparenti, talvolta anche con vero e proprio mercimonio. Questo non ha mai portato nessun giudice, una volta stabilizzata la relazione fra questi bambini e i genitori adottivi, a provvedimenti di allontanamento, almeno per quel che ne so. Non mi pare che l'esecrabilità dell'utero in affitto, ammesso che sia effettiva, possa giustificare la distruzione di una famiglia, di una vita affettiva già formata – come i giudici di Trento hanno giustamente stabilito.