Non è la prima volta che Matteo Renzi afferma di essere contrario al «reddito di cittadinanza». Lo ha fatto in diverse occasioni, arrivando perfino a liquidare tale idea come «una proposta strampalata». Per questo la notizia che l’ex segretario del Pd avesse in programma, nel suo viaggio californiano, un incontro con Elon Musk, ceo di Tesla, un’azienda leader nel campo dell’innovazione tecnologica, aveva destato un certo interesse da parte di chi segue il dibattito interno alla sinistra italiana. Nelle scorse settimane, infatti, Musk si era aggiunto alla lista, ormai piuttosto consistente, di esponenti del mondo imprenditoriale che lavorano in settori ad alta tecnologia che si sono espressi a favore del reddito di cittadinanza. Una misura che Musk, che non è certo un socialista, ritiene possibile e necessaria per far fronte ai problemi sociali che saranno probabilmente provocati dalla drastica diminuzione di posti di lavoro causata dall’automazione. L’attesa di una svolta, però, è andata delusa. Renzi, con Musk, ha parlato d’altro, e anzi dopo l’incontro ha ribadito che lui al reddito di cittadinanza è contrario perché spingerebbe i giovani a ripiegarsi su se stessi invece di mettersi in gioco e darsi da fare. Argomenti dal sapore vagamente ottocentesco, che sorprendono in un leader che ha sempre fatto dell’innovazione il tratto caratteristico del suo messaggio. Viene il dubbio che la ragione di questa chiusura nei confronti di un tema per il quale diversi esponenti di partiti socialisti e progressisti – da ultimo Justin Trudeau – dichiarano interesse, sia motivata da considerazioni tattiche. La proposta di una misura chiamata «reddito di cittadinanza» era stata infatti avanzata dal M5S.

Se la spiegazione dell’intransigenza di Renzi fosse questa, egli avrebbe commesso un errore. Per reddito di cittadinanza (o basic income, reddito di base; d’ora innanzi Rdc) si intende un trasferimento monetario, prelevato dalla fiscalità generale ed erogato periodicamente su basi individuali alle persone, durante la loro intera vita adulta, a prescindere dal loro reddito e dalla disponibilità ad accettare un lavoro (se offerto). In tal senso, l’erogazione di un Rdc non richiede alcuna «prova dei mezzi» – per esempio la verifica che l’individuo si trovi al di sotto di una data «soglia di povertà» – tantomeno, la sua concessione è subordinata alla disponibilità ad assumersi qualche impegno lavorativo, perlomeno ove non sussistano condizioni di inabilità al lavoro. Essendo incondizionato, il Rdc non è il reddito minimo garantito, una misura quest’ultima che è soggetta a verifica sui mezzi, che in genere viene sospesa ove la persona rifiutasse un’offerta di lavoro. A differenza del reddito minimo garantito, del Rdc possono beneficiare quanti non lavorano ancora (gli studenti), quanti non lavorano più (i pensionati) e quanti prestano forme di lavoro che non sono formalmente riconosciute come tali (casalinghe, assistenza a parenti anziani o a bimbi piccoli ecc.). Non è nemmeno un salario minimo, che è invece una soglia fissata per legge sotto la quale non può scendere la remunerazione da lavoro e al cui rispetto sono quindi vincolati i datori di lavoro (esiste in alcuni Paesi europei, come Francia, Spagna e Regno Unito, e anche negli Usa). Al limite, il Rdc può essere considerato un salario di cittadinanza, benché il termine «salario» suggerisca ancora una volta che ci si sta muovendo all’interno dell’opzione lavorista, che è invece proprio ciò da cui il Rdc si vuole affrancare.

Nel dibattito accademico internazionale di Rdc si parla da ormai trent’anni, a partire dai pionieristici lavori del Collettivo Charles Fourier, di James Meade e di Philippe Van Parijs. Quest’ultimo, un brillante filosofo politico belga, è stato l’autore che più di tutti ha contribuito alla diffusione di questa idea, con la creazione del Basic Income Earth Network, di cui esiste una «filiale» anche in Italia, il Bin-Italia. E anche se al momento il Rdc esiste solamente in Alaska (dal 1976), in collegamento con le rendite petrolifere, e anche se altrettanto ovviamente il problema di come finanziarlo sussiste (ma non è che manchino ipotesi su come risolverlo), è un fatto che negli ultimi anni il tema del Rdc è entrato prepotentemente nelle agende politiche di numerosi Paesi (basti pensare al referendum svizzero del giugno 2016). Una misura come il Rdc sembra infatti una possibile risposta alla caduta del reddito individuale a seguito dei fenomeni di disoccupazione strutturale prodotti anche dall’automazione; e una risposta più efficace rispetto a sistemi di protezione sociale basati esclusivamente su trasferimenti condizionati, se è vero ciò su cui la letteratura specialistica insiste da tempo, ovvero che i trasferimenti incondizionati permettono di risparmiare i costi legati alla gestione del sistema e ai meccanismi di controllo, impediscono che si produca l’effetto «stigma» presso chi deve richiedere un sussidio e deve perciò dimostrare di possederne i requisiti, e consentono di schivare le cosiddette «trappole della povertà», vale a dire quelle situazioni in cui le persone con redditi bassi o nulli non hanno incentivi a cercare un lavoro poiché ogni reddito addizionale sarebbe annullato dalla perdita dei benefici sociali e/o da aumenti delle imposte.

Un controllo sul sito del M5S è sufficiente per verificare che la proposta dei grillini, a dispetto del nome, non è un Rdc. Ma allora, perché rifiutarsi anche solo di discutere un’ipotesi innovativa che è al centro di un vivace dibattito internazionale?