La vicenda del nuovo stadio della Roma ha in queste ultime settimane superato l'attenzione della cronaca locale, per diventare un tema di dibattito politico e urbanistico nazionale. Si sbaglierebbe però a pensare che questa improvvisa attenzione dipenda solo da ragioni contingenti, legate alla turbolenta esperienza di governo della sindaca Raggi e al carosello di interviste e smentite che hanno portato alle dimissioni dell'assessore Berdini. Perché questa non è una storia come altre, ci troviamo infatti di fronte a qualcosa di inedito persino per una città come Roma che di sicuro non è mai stata un esempio di buon governo urbanistico.

In questa vicenda il cuore delle questioni sta nella localizzazione scelta per realizzare il nuovo stadio della Roma, attraverso una procedura speciale prevista da una legge ad hoc per le nuove attrezzature sportive, che avrebbe qui la sua prima applicazione. Un'area complicata, su un ansa del fiume Tevere e con una difficile accessibilità, dove oggi versa in stato di abbandono uno degli Ippodromi di Roma, quello di Tor di Valle. Se proprio il degrado dell'area è utilizzato come ragione per portare finalmente investimenti, servizi, funzioni importanti in una periferia che ne avrebbe un gran bisogno, è proprio la procedura speciale a stravolgere il senso dell'operazione. Perché invece di uno stadio con dei servizi annessi si discute, oramai da più di tre anni, di un quartiere per uffici e grandi attività commerciali per oltre un milione di metri cubi, all'interno del quale trova spazio uno stadio. La ragione di questo salto di scala? Proprio le difficoltà di realizzare una struttura sportiva, da 60 mila posti a sedere, in un'area con quelle caratteristiche. È la legge sugli stadi a consentire uno scambio tra investimenti necessari a realizzare l'investimento e cubature. E sommando le risorse necessarie a mettere in sicurezza l'area da un punto di vista idrogeologico (e qui sono molti i dubbi che siano sufficienti), quelle necessarie ad adeguare la Via Ostiense e a realizzare lo svincolo con il collegamento per l'autostrada Roma-Fiumicino, quelle per i parcheggi e quelli per attrezzare con qualche albero le aree intorno allo stadio, si arriva a un progetto di un milione di metri cubi con alberghi, strutture commerciali, e tre grattacieli di uffici che variano da 130 a 180 metri di altezza disegnati dall'archistar Daniel Libeskind.

I fautori dell'intervento la descrivono come una grande opportunità per la città, mettono in evidenza le risorse investite in un periodo di crisi e la qualità dell'intervento. Non sono argomenti da sottovalutare in una città che sta attraversando una fase di grande difficoltà sociale ed economica. E proprio per questo vanno affrontati con attenzione. Il primo tema è quello del vantaggio che la città ne avrebbe in termini di investimenti nell'interesse generale. Molto si è discusso, ai tempi della giunta Marino, di questo argomento in virtù del fatto che in tutte le città europee i nuovi stadi prevedono un accessibilità su trasporto pubblico, e pochissimi parcheggi, proprio per non mettere in crisi la città. Nel 2014 la delibera che approvò il progetto prevedeva due ipotesi: il prolungamento della linea B della metro fino allo stadio o la trasformazione della linea Roma-Lido in metropolitana, con una indicazione molto precisa: almeno 16 treni l'ora, per garantire che almeno il 50% dei tifosi raggiunga l'area con i mezzi pubblici. Nessuno ne parla, ma il progetto che la giunta Raggi si appresta ad approvare non prevede nessuna delle due ipotesi. Il prolungamento della linea B è stato scartato per ragioni tecniche, mai davvero chiarite, mentre la trasformazione della Roma-Lido in metropolitana non è né progettato né finanziato. Per chi ha ogni giorno la sfortuna di prendere i treni che vi circolano (sono oltre 70 mila persone) conosce bene la situazione di una delle linee peggio gestite d'Italia. Con convogli vecchi e stazioni degradate, continui problemi e tagli di corse. Eppure, quella che poteva essere la principale ragione per motivare il progetto dello stadio, in una città che ha un incredibile bisogno di trasporto su ferro, è rimasta una promessa. E, a differenza dei tifosi dell'Arsenal, del Bayern Monaco, del Barcellona quelli della Roma saranno costretti a muoversi in auto e utilizzare uno degli oltre 10 mila posti auto previsti dal progetto (che occupano circa 20 ettari di terreni). Un secondo argomento di riflessione riguarda l'operazione urbanistica, perché ci troviamo di fronte alla più grande variante di Piano Regolatore mai realizzata nella città. Qui c'è uno strano paradosso dell'operazione proposta dall'imprenditore immobiliare romano Parnasi e dai proprietari americani della società di calcio. Perché a tenere in piedi l'investimento è la realizzazione di tre grattacieli per uffici, raccolti intorno a quello che viene denominato «Business Park». E il paradosso sta nel fatto che il direzionale vive a Roma una fase di crisi drammatica e sono stati realizzati in questi anni giganteschi investimenti in centri commerciali, anche loro in grande difficoltà. Può sembrare paradossale, ma i maggiori oppositori del progetto di Tor di Valle sono proprio i costruttori romani. E con la ragione che questa operazione stravolge tutti gli equilibri urbanistici esistenti e previsti dal piano vigente.

Infine una questione più politica nel senso alto del termine, che riguarda il modo in cui nelle città si debbano prendere decisioni di questa portata. E che dunque riguarda il confine tra interesse generale e invece privato, il rispetto di regole che valgono erga omnes e gli accordi negoziali tra le parti. È normale chiedersi la ragione per cui in questa vicenda romana non si sia riusciti a proporre un intervento come quello di altre città europee, dove i nuovi Stadi sono stati integrati, con successo, nei tessuti urbani. La spiegazione è semplicemente che non si è avuto il coraggio di aprire un trasparente confronto nella città sulla vicenda. Per paura o incapacità di governare un tema inevitabilmente complesso, anche per il peso che la Roma – intesa come squadra, tifoseria e passione – rappresenta. L'errore è iniziato con la giunta Marino che, a lungo, ha fatto finta che il progetto dello stadio (di cui tutti parlavano), non esistesse. Salvo poi accorgersi, o far finta di scoprire, che con la nuova procedura prevista dalla Legge per gli stadi il comune non aveva margini per fermare o modificare il progetto. Eppure se si guarda ad esperienze analoghe di stadi privati, per esempio lo stadio del Bayern Monaco o quello dell’Arsenal, è stato proprio il confronto con l’amministrazione a portare verso la scelta più idonea per la città da un punto di vista urbanistico e di accessibilità. E qui sta il secondo errore compiuto in questi anni, che accomuna Marino e la Raggi, ossia l’aver rinunciato ad aprire un confronto vero sul progetto. Perché se abbiamo già affrontato le questioni di dove e quanto si costruisce, conta anche cosa e come. È possibile che sia un imprenditore privato a decidere che in quell'area della città si realizzeranno grattacieli? Non è una questione banale ne di preconcetta opposizione verso lo sviluppo in altezza delle città, ma a Roma queste scelte sono sempre state contenute per ragioni urbanistiche e paesaggistiche, legate alla sua storia ma anche morfologia. E invece, senza alcun dibattito, senza che neanche i grattacieli di Libeskind comparissero nella delibera votata nel 2014 dai consiglieri comunali, questo è stato stabilito. Come se non fosse nell'interesse e nella responsabilità di chi governa la città scegliere la forma che un intervento di questa dimensione dovrà assumere, i caratteri degli spazi pubblici e i limiti entro cui si debbano muovere quelli privati. Ossia come è normale che avvenga in qualsiasi città europea, e che a Roma è invece affidata all'imprenditore Parnasi con i suoi soci americani.

È davvero un peccato che Italo Insolera ci abbia lasciati nel 2012 perché questa vicenda lo avrebbe sicuramente coinvolto e appassionato. Avremmo bisogno della sua intelligenza per collocarla dentro la storia urbanistica della città, tra le tante vicende raccontate in quel capolavoro che è «Roma Moderna». Forse avrebbe usato come paragone la vicenda avvenuta ai tempi del sindaco Rebecchini, quando a Roma si forzò il piano regolatore per realizzare in cima alla collina di Monte Mario, al posto di un area destinata a verde, l'Hotel Hilton. Eppure quell'intervento enorme (100 mila metri cubi!), all'epoca scandaloso e al centro di polemiche e inchieste, oggi davvero impallidisce di fronte a una operazione come quella di Tor di Valle.