L’attenzione è oggi prevalentemente concentrata sugli arrivi dei richiedenti asilo e sui flussi forzati. In questi due ultimi anni, tali movimenti hanno raggiunto in Europa dimensioni che hanno messo in discussione l’intero sistema di gestione del fenomeno. Nel 2015, in particolare, i dati dell’Agenzia europea Frontex mostrano come le intercettazioni a un confine esterno dell’Unione europea siano state 1,8 milioni. Nel 2016, dopo l’accordo con la Turchia che ha portato a una drastica riduzione delle intercettazioni nel Mediterraneo orientale, i numeri si sono molto ridotti. In totale, nei primi nove mesi dell’anno le intercettazioni ai confini esterni dell’Unione sono state 416 mila, un valore di gran lunga inferiore a quello del 2015, ma già sensibilmente più elevato di quanto è stato registrato tra il 2010 e il 2014.

Nei primi mesi dalla sua applicazione l’accordo tra Unione europea e Turchia sembra avere raggiunto il proprio scopo. Tuttavia è difficile considerarlo una soluzione definitiva di un problema che impone un’ampia revisione dell’intero sistema di gestione delle migrazioni forzate da parte dell’Unione con il superamento del Regolamento di Dublino.

Questa forte crescita degli arrivi nell’Unione europea di persone bisognose di protezione riflette in realtà il drammatico aumento delle migrazioni forzate per motivi politici o ambientali che si è registrato in tutto il mondo negli ultimi vent’anni. Nel mondo il numero di persone bisognose di protezione è passato dai 37,3 milioni del 1996 ai 63,9 milioni di fine 2015 ed è ancora aumentato nell’anno in corso (Fig. 1). Una crescita del 75% che in larga parte (l’86%) è a carico dei Paesi in via di sviluppo. I dati di questi ultimi anni sono impressionanti: nel 2011 le diverse categorie di persone assistite assommavano in tutto il mondo a 35,44 milioni, nel 2013 erano arrivate a 42,87 milioni, nel 2014 a 54,96, lo scorso anno a 63,9 milioni.

Questo andamento testimonia in maniera drammatica l’incapacità degli attori coinvolti di trovare soluzioni politiche in grado di fermare i conflitti e di avviare processi di pace stabili e duraturi, unico modo per giungere a una drastica riduzione delle persone bisognose di protezione e, conseguentemente, dei flussi di richiedenti asilo. È evidente, inoltre, che di fronte a numeri di questa portata qualsiasi politica migratoria non può che essere un palliativo. Siamo di fronte a problemi di stretta pertinenza della politica internazionale che dovrebbe porre in cima ai propri obiettivi quello di ridurre il bacino che alimenta in tutto il mondo le migrazioni forzate.

Per quanto rilevanti, questi aspetti rappresentano però solo una parte del fenomeno. Per le migrazioni europee, in particolare, la crisi economica del 2008 ha ridotto i flussi per lavoro e ha segnato una svolta importante nell’evoluzione del fenomeno migratorio. È però evidente che i fattori strutturali alla base delle migrazioni sono rimasti e si riattiveranno quando l’economia si rimetterà pienamente in moto, come per altro è avvenuto nei Paesi (come la Germania) dove la ripresa è stata più rapida e intensa. D’altra parte la crisi ha comportato una riduzione tutto sommato contenuta del fenomeno (Fig. 2). Nel 2007 il volume complessivo dei flussi di immigrazione permanente diretti nei Paesi Ocse ha raggiunto i 4,7 milioni di unità, è sceso a 4,4 nel 2008 e a 4,1 nel 2009; su questi livelli si è praticamente mantenuto fino al 2013, per risalire a 4,3 milioni nel 2014 e crescere ancora nel 2015. Si è giunti ora di nuovo al di sopra dei livelli registrati prima della crisi, in una situazione che per altro resta difficile in diversi Paesi, specie quelli dell’area mediterranea che sono stati nello scorso decennio tra i più importanti poli d’attrazione della scena mondiale.

Se si considerano l’impatto e le dimensioni della crisi, una riduzione di 700 mila unità, pari al 15% del totale, nei flussi diretti verso le aree più sviluppate del pianeta appare veramente modesta. A tale riguardo, va considerato come i flussi migratori presentino diversi fattori inerziali che ne riducono la dipendenza dagli andamenti congiunturali dell’economia e dei mercati del lavoro. Una situazione ben evidenziata dall’andamento del fenomeno tra il 2007 e il 2014, in base alle diverse categorie di migrazioni permanente utilizzate dall’Ocse (Fig. 3). In quest’arco di tempo la diminuzione più cospicua ha riguardato ovviamente i flussi per lavoro, scesi da 727 mila a 533 mila, con una perdita di poco superiore a un quarto del totale.

In diminuzione anche i flussi per motivi di famiglia, passati da 1,48 milioni del 2007 a 1,29 milioni del 2014, con un calo complessivo del 12,9% che segnala, con ogni probabilità, una riarticolazione dei progetti migratori di molti nuclei familiari alla luce delle mutate condizioni economiche. Del 6,8% è stata invece la diminuzione dei movimenti liberi, che dal 2009 sono però in netta ripresa, tanto che dal minimo di 900 mila unità registrato in quell’anno sono tornati a 1,27 milioni (erano 1,36 nel 2007). Le altre categorie sono in crescita, anche se le loro dimensioni sono decisamente più contenute. In particolare, sono leggermente aumentati gli ingressi dei familiari dei lavoratori; sono cresciuti dell’8,2% quelli per motivi umanitari, che hanno fatto registrare un incremento ancora più intenso nel 2015, mentre quelli per altri motivi sono passati da 169 mila a 227 mila unità.

L’inerzia dei flussi migratori si accompagna e, in buona misura, è alimentata dall’inerzia dei processi demografici. La «bomba demografica» che ha accompagnato gli incubi degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso è ormai alle spalle: i tassi di crescita dell’intera popolazione mondiale sono infatti scesi dal 2% all’1% e tendono ancora a diminuire. Dal punto di vista demografico, la vera area problematica è oggi rappresentata dall’Africa sub-sahariana, in cui nei prossimi 35 anni, secondo le ultime previsioni delle Nazioni Unite, si concentrerà quasi la metà di tutto l’incremento della popolazione mondiale e dove, ad esempio, nel 2050 la Nigeria raggiungerà i 400 milioni di abitanti, il Congo i 195 milioni e l’Etiopia i 188 milioni.

Complessivamente nell’Africa sub-sahariana tra il 2015 e il 2050 la popolazione totale aumenterà di 1,16 miliardi, passando da 962 milioni a 2,132 miliardi, e quella in età lavorativa (20-64 anni) crescerà di 658 milioni, da 423 milioni a 1,071 miliardi (Tab. 1). Al confronto, gli aumenti che si registreranno nell’Africa settentrionale, per quanto grandi, appaiono quasi contenuti, visto che in questa area la popolazione in età lavorativa crescerà in totale di «soli» 64,9 milioni. La stessa Asia, che pure nel 2015 ha 4,39 miliardi di abitanti pari al 60% dell’intera popolazione mondiale, presenterà nei prossimi 35 anni aumenti più contenuti di quelli che presenterà questa parte del continente africano. Ampia, in particolare, la differenza per la popolazione in età lavorativa, l’aggregato più direttamente interessato ai flussi migratori, che in Asia crescerà per una cifra pari al 58% di quella che registrerà nell’Africa Sub-sahariana.

Opposto il prossimo futuro demografico dell’Europa che, nonostante l’apporto migratorio, nello stesso periodo vedrà diminuire la popolazione di 31,6 milioni e di 86 milioni la parte in età lavorativa. Processi a cui l’Italia darà un contributo rilevante con perdite, rispettivamente, di 3,3 e 7,3 milioni. Senza l’apporto delle migrazioni lo scenario disegnato dalla Population Division delle Nazioni Unite è ancora più netto, con una perdita di 112,3 milioni di persone in età lavorativa in Europa e di 11,7 in Italia. Questi dati mostrano, da un lato, come immaginare un futuro dell’Europa e dell’Italia senza immigrazione sia del tutto irrealistico e, dall’altro, come il potenziale serbatoio dei futuri flussi sia destinato a crescere considerevolmente in un’area che all’Europa è relativamente prossima. Un differenziale di questo tipo non può certo essere gestito in assenza di una governance sovranazionale. E allora?

La crisi dei rifugiati, le dimensioni consistenti dei flussi per altri motivi e il sostegno allo sviluppo e alla crescita dell’Africa sub-sahariana sono tre elementi che dimostrano la necessità e l’utilità di una gestione internazionale dei processi migratori, per ridurne l’impatto e cercare di usarne al meglio le potenzialità. L’accoglienza e l’integrazione non possono e non potranno prescindere da questi fattori di contesto che sfuggono in gran parte dall’azione degli attori nazionali, ma che sono elementi costitutivi di un processo sociale di grande complessità come quello migratorio, che è illusorio pensare di risolvere con muri sempre più alti.

 

 

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