Su nessuno dei problemi oggi emergenti – immigrazione, crisi finanziarie, conflitti armati, terrorismo – la sinistra ha qualcosa di concreto e di originale da dire. In generale i suoi argomenti si riducono a tre petizioni di principio in stretta relazione reciproca. La prima è la declinazione illuministica di ideali (solidarietà, accoglienza, uguaglianza) tanto ineccepibili nella forma quanto sostanzialmente difficili da gestire nelle periferie urbane che si trovano ad affrontare in prima linea la doppia emergenza economica e immigratoria. La seconda è la formulazione di un universo parallelo retto da diritti sempre più sofisticati: tanto efficace (anche se spesso solo sulla carta) nella tutela delle minoranze, quanto di fatto inapplicabile nella sfera socioeconomica (diritto al lavoro, per fare il più classico degli esempi) che riguarda le grandi maggioranze. La terza è il ricorso alla spesa pubblica e al sostegno statale: una strada resa impervia dalla sua lenta usura nel corso del secondo Novecento (con l’aumento costante dei livelli di tassazione) fino all’ammasso delle odierne montagne di debito pubblico. Ma è anche una strada che implica il ritorno al protezionismo e al nazionalismo, rinunciando a una dimensione globale della politica fondata sulla cooperazione tra Stati nazionali.

Siamo convinti che questa afasia della sinistra abbia le sue origini storiche negli anni Ottanta, e precisamente nella incapacità di analizzare i prodromi della globalizzazione allora in pieno corso. Nel 1979 la Cina avviava le sue modernizzazioni liberalizzando i mercati rurali. In tutt’altro contesto (la critica degli eccessi sanguinari della Rivoluzione culturale, il fallimento dell’agricoltura sovietica), il pragmatismo politico di Deng Xiaoping anticipava i contenuti di quel che la sinistra occidentale si è abituata a chiamare neoliberismo: senza la spinta individuale al profitto non esiste crescita economica. Di lì a qualche anno anche Gorbacëv sarebbe giunto alla stessa conclusione, ma senza la fortuna di avere un ceto contadino ancora in piedi: decenni di collettivizzazione ne avevano ormai piallato ogni residua capacità imprenditoriale.

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 6/16, pp. 1069-1075, è acquistabile qui]