Chi ha ancora in mente il bellissimo discorso che Joschka Fischer tenne il 12 maggio del 2000 alla Humboldt-Universität di Berlino?

C’erano le speranze, le aspirazioni, le ambizioni. La moneta unica stava per diventare realtà, il processo per una Costituzione europea era in cantiere. Quel 10 maggio il ministro degli Esteri della Germania riunificata propose niente di meno che una visione per il futuro, fondata su una prospettiva politica e federale dell’Europa. L’Italia, la cui storia e cultura politica del dopoguerra si inscrivevano pienamente all’interno di una simile visione, non poteva che aderire a questa nuova «narrazione» europea.

Quindici anni dopo, i fotogrammi di quel film ricordano quelle malinconiche immagini seppia rinchiuse nei cassetti che appartengono irrimediabilmente al passato. Tutto è cambiato.

Allora eravamo alla vigilia di una possibile unione «sempre più stretta», ora l’Europa si sta disintegrando davanti ai nostri occhi impotenti. Mentre per molto tempo, fin dagli anni Cinquanta, l’Italia ha rappresentato il pilastro più stabile all’idea di Europa unita, ora sembra avere imboccato anch’essa la via euroscettica. Come spiegare questa radicale inversione, questo passaggio dall’ottimismo alla disillusione, alla frustrazione, alla rabbia?

Le cause di questo mutato atteggiamento sono molteplici. Tutte le democrazie che dopo il 1989 si pensavano senza un’alternativa credibile perché portatrici di prosperità e pace, di uguaglianza e libertà, sono entrate in crisi. Non esiste una spiegazione mono-causale, tuttavia è possibile tentare di individuare i fattori chiave di questo stravolgimento.

La prima causa sembra da ricondursi alla trasformazione insidiosa ma radicale delle democrazie nel dopoguerra. Esse si sono sì basate sulla sovranità popolare ma attraverso sistemi rappresentativi presi a modello dalla lunga sedimentazione storica della democrazia in Gran Bretagna. I cittadini britannici detenevano diritti limitati ma esercitabili nei confronti della monarchia, rappresentati dai loro eletti.

Naturalmente, la realtà era meno entusiasmante, ma tali erano il postulato e il mito sino agli anni Cinquanta e Sessanta. Da allora si moltiplicano e si affinano i «diritti fondamentali» garantiti dalle corti supreme che diventano veri e propri creatori di norme e valori costituzionali, privilegio teoricamente riservato al monopolio popolare. Per brevità, diciamo che lo spazio politico (quello del popolo attraverso i suoi rappresentanti) si è notevolmente ristretto. Checché se ne pensi, il fenomeno è indiscutibile: il legislatore è limitato nella sua capacità di rispondere alle esigenze espresse dal voto popolare. Brexit è la forma radicale e confusa del rifiuto dei vincoli imposti e i dibattiti costituzionali suscitati dai risultati del referendum mettono in discussione regole e convenzioni secolari.

La seconda causa deriva dalla nostra incapacità di pensare la democrazia diversamente dai termini di quella che io chiamo per estensione la «democrazia westfaliana». La democrazia è sorta nel cuore dello Stato-nazione, e lì si è sviluppata ed è cresciuta: nessuno è stato ancora in grado di proporre un’alternativa credibile. L’unica opzione era ed è, in caso di crisi territoriale della democrazia nazionale, quella di offrire la sua frammentazione sub-nazionale sulla base di nuove «piccole patrie». Anche perché nulla di convincente è stato proposto quando si è trattato di immaginare una nuova democrazia «sovranazionale». Questa è la sfida del nostro tempo, l’ostacolo intellettuale, culturale e politico maggiore. Così come ci è stato possibile inventare la democrazia moderna, combinando il mito della democrazia greca con il principio della rappresentanza alla fine del Settecento, non ci resta che immaginare la democrazia del futuro spogliata della sua camicia di forza nazionale. Ora tutto mostra che dopo aver fatto qualche passo in questa direzione nell’ultimo mezzo secolo, in Europa siamo entrati in una fase di «regressione». Il ripiegamento populista su un popolo bloccato nei suoi confini è in evidente contrasto con la formazione di un mondo aperto e globale. Senza dubbio, il conflitto frontale tra Stato e mercato non è mai stato così evidente: più siamo aperti sul fronte della globalizzazione economica, più ci chiudiamo politicamente.

La tensione che nutre proteste e populismo si esprime nella crescente divergenza tra politiche (policies) e politica (politics); il fuoco del dibattito diventa la comunità politica (polity), la sua definizione e il suo ruolo nel mondo in trasformazione. Per dirla in breve, la politica è rimasta (o pretende di rimanere) esclusivamente nazionale, mentre le politiche sono sempre più governate da norme o attori extra-nazionali, istituzioni internazionali, trattati internazionali, imprese multinazionali… La levata di scudi in molti Paesi democratici contro gli accordi commerciali internazionali mostra, in modo confuso ma giusto, quanto le opinioni pubbliche hanno realizzato che i luoghi del potere si sono spostati. Non sono più i singoli Parlamenti, né i governi nazionali, quanto piuttosto degli «altrove» impercettibili, invisibili, multipli e confusi.

Questo stato di cose è stato esacerbato ulteriormente dal rifiuto dei «re» di constatare che erano nudi. La maggior parte dei partiti o dei politici hanno continuato a pretendere di essere ancora come in passato punti di riferimento imprescindibili, mentre la loro capacità di azione è ormai appesa a un filo. La buona volontà dei programmi si scontra drammaticamente con la realtà: le sconfitte di Cameron, di Hollande e, da ultimo, di Renzi testimoniano che la grande svolta che hanno tentato di mettere in pratica ha fallito. Non sembra esserci alcuna via di mezzo tra la sottomissione alle forze di mercato (globale) e il ripiegamento (locale) sostenuto dai partiti populisti. Questa tensione - che è stata anche quella della prima globalizzazione tra il 1860 e il 1914 - è entrata in una fase particolarmente acuta, come dimostra l’elezione di Trump. Anche al culmine del suo successo il «People’s Party» nato alla fine dell’Ottocento non era mai stato in grado di fare eleggere il proprio candidato alle presidenziali americane. Il populismo sembrava confinato a livello locale: nel novembre 2016 per la prima volta la diga ha ceduto.

Queste cause sono strutturali e come tali richiedono un cambiamento di paradigma. Ma questa situazione è aggravata da una causa congiunturale, la crisi scoppiata nel 2008 (congiunturale, perché anche le crisi più gravi sono destinate a risolversi in una soluzione, quale essa sia). La crisi finanziaria – poi economica, poi sociale e oramai politica – ha amplificato l’impatto delle cause strutturali e confuso le interpretazioni, ha nutrito le nostalgie e ha creato i blocchi che rendono ancora più difficile la ricerca e l’adozione di soluzioni appropriate. L’ampiezza e la durata delle crisi, l’incapacità di regolarle con gli strumenti conosciuti impongono delle soluzioni inesplorate, spesso radicali e rivoluzionarie. Poiché niente funziona, meglio rovesciare il tavolo e costruire un mondo nuovo. In quest’ottica, va notato che nessuno o quasi metta in dubbio il mercato per il quale «there is no alternative», mentre le forme politiche di gestione collettiva sono messe in discussione, a volte anche radicalmente. A questo proposito Robert Dahl parlava di «unhappy couple», che si è puntualmente presentata.

In questo panorama generale l’Italia, lungi dal fare eccezione, sembra fare parte dei Paesi più indeboliti dalla trasformazione mondiale. A priori, non dovrebbe essere così. L’Italia, almeno tra i Paesi europei, è probabilmente uno dei più aperti al mondo. Uno dei più «internazionalisti», grazie alla sua storia passata e recente. Contrariamente a molti Paesi tentati da soluzioni autoritarie, l’Italia appare riluttante a tutto ciò che sa di eccessiva concentrazione di potere (ne è testimone l’accusa assurda seconda la quale, se approvata, la recente proposta di riforma costituzionale avrebbe instaurato una dittatura).

Il problema italiano nasce dal fatto che questa profonda trasformazione del mondo interviene su un corpo malato e indebolito, in cui l’assenza da decenni di riforme strutturali (o fatte troppo tardi) hanno debilitato l’organismo politico e sociale. Il Paese e le sue élite non sanno più a che santo votarsi, soprattutto dopo il fallimento di tutti i tentativi recenti e la constatazione che l’Europa non è più la soluzione (sperata e sognata), ma il problema…

Quo vadis Italia, quo vadis Europa? Nessuno ha una risposta chiara e credibile a questa domanda assillante. L’unica certezza si rivela nel rifiuto, nella protesta, nel «no». Ma che cosa significa, per esempio, il «no» al referendum del 4 dicembre? Un «no» alla riforma della Costituzione (il mostro sacro), un «no» a questa riforma della Costituzione (alla ricerca della riforma perfetta…), un «no» a Renzi, un «no» alla classe politica, un «no» di rabbia universale? Probabilmente tutto ciò insieme, un’espressione politica che non porta lontano ma che accentua ancora di più la crisi istituzionale, politica, sociale e culturale in cui si trova il Paese.

Qualche anno fa un bel film libanese descriveva la beatitudine pacifica di un villaggio multi-confessionale isolato tra le montagne, fino all’arrivo di una guerra civile che lo distrugge. Poi alla fine, sui morti e sulle rovine, le donne del villaggio tentano di riprendere il filo del dialogo, senza sapere la direzione da prendere. Da qui il titolo del film «E ora, dove si va?».

Eccoci qua. Ognuno sa e dice ciò che non vuole o non vuole più: ma dove stiamo andando?

 

[Su questi temi, si segnala l’intervista a Yves Mény di Pier Domenico Tortola pubblicata su EuVisions]