La tesi principale del volume di Martin Sandbu, Europe’s Orphan: The Future of the Euro and the Politics of Debt, può essere riassunta in tre punti: il primo è che l’integrazione monetaria non è stata la causa principale della crisi dell’Eurozona. Il secondo è che gli interventi di salvataggio finanziario, a partire dalla Grecia, sono diventati inevitabili non tanto per la mancanza di alternative, quanto per «una resistenza ideologica a tagliare i debiti – sia delle banche sia degli Stati sovrani» (p. 266).

Il terzo e ultimo punto è che l’Eurozona può prosperare anche senza dirigersi verso un sistema compiutamente federale. Per dirla con l’autore, «poiché la mancanza di un’unione fiscale e politica non è la causa della stagnazione economica dell’Eurozona, è sbagliato pensare che essa sia un difetto destinato a gravare perennemente sull’economia» (p. 267).

Il volume parte dall’idea che gli effetti più deleteri della crisi dell’euro si sarebbero potuti e dovuti evitare. Tra questi l’impoverimento e lo svuotamento della democrazia nei Paesi debitori, il crescente malcontento da parte dei Paesi creditori, le discordie politiche scatenate dagli interventi di bail-out, e il crescere di nazionalismi e populismi in ogni parte del continente.

Gli Stati del Nord Europa hanno trovato conveniente presentare la crisi dell’Eurozona come una questione di «meridionali pigri e corrotti» che vivono al di sopra delle proprie possibilità. Tuttavia, come ha sottolineato Kenneth Dyson, è impossibile avere cattivi debitori senza avere creditori incauti. Non vi è dubbio che i governi, le imprese e i consumatori dei Paesi alla periferia dell’Europa siano Stati imprudenti nello spendere ingenti somme di denaro come se non ci fosse un futuro a cui pensare. Ma sull’altro versante vi sono state le banche dei Paesi creditori che si sono rivelate imprudenti almeno tanto quanto chi questi crediti li riceveva.

Col senno di poi, non vi è dubbio che la cosa giusta da fare sarebbe stata ristrutturare il debito pubblico greco già nel maggio del 2010, e quello privato irlandese sei mesi più tardi. Le ristrutturazioni, si sa, suscitano sempre timori per gli effetti che possono provocare sia sui debitori – tentati di accumulare debiti nella speranza che alla fine siano cancellati – sia sui creditori, che potrebbero fuggire non solo dai Paesi sovraindebitati ma anche, in caso di «contagio», dall’Europa nel suo complesso. Sandbu però contesta entrambi questi punti: in merito al primo, l’improvviso esaurirsi del credito estero e la conseguente necessità dei Paesi debitori di eliminare in tempi brevi il loro disavanzo primario possono fungere da efficaci deterrenti contro l’azzardo morale. Sul secondo, l’autore esclude le teorie apocalittiche di imminente tracollo qualora l’Europa avesse favorito fin da subito una politica di bail-in anziché di bail-out. Le perdite implicite nei processi di ristrutturazione, nota l’autore, solitamente agitano i mercati solo per breve tempo.

La mancata immediata ristrutturazione del debito, tuttavia, non fu solo una scelta, per così dire, ideologica, ma anche politica: come ha affermato Karl Otto Pöhl, ex presidente della Bundesbank, il bail-out greco non è stato un generoso gesto di solidarietà europea nei confronti di un membro ribelle della famiglia, ma piuttosto una mossa per proteggere banche e risparmiatori tedeschi. Invece di ammettere ciò, la classe dirigente tedesca ha preferito rifarsi al solito cliché dei meridionali pigri e corrotti tanto caro ai lettori della «Bild».

L’Europa può dunque avere una sana democrazia, libera da populismo e xenofobia, nel contesto di un’unione monetaria? Secondo Sandbu non solo può, ma deve. Il suggerimento dell’autore è di mantenere l’euro, stabilire le condizioni per una ristrutturazione bancaria veloce e indolore che permetta di affrontare le crisi future, infine abbandonare esplicitamente la politica di bail-out in favore del bail-in. Nonostante in ciò sembri sussistere un’ombra di euroscetticismo, la posizione di Sandbu non è incasellabile così facilmente:

«Paradossalmente, una maggiore autonomia nazionale può spingere verso una maggiore integrazione. Ciò non significa necessariamente muoversi verso un’unione politica e fiscale – anche se alcuni gruppi di Paesi potranno adottare volontariamente tali elementi. Con un minore antagonismo elettorale, i Paesi potranno trarre vantaggio da una maggiore integrazione in aree specifiche grazie a “coalizioni di volenterosi”, ossia sottogruppi di Stati europei che la pensano allo stesso modo» (p. 241).

Che siano persuasi da tale posizione oppure no, studenti, studiosi, o semplicemente cittadini interessati a questi temi troveranno la lettura di questo libro di sicuro gratificante e intellettualmente stimolante.

 

[Una versione estesa dell'articolo è disponibile in lingua inglese su euvisions.eu - traduzione a cura di Elisa Carrettoni]